Sono passati 50 anni dalla strage di piazza Fontana, a Milano, che ha sconvolto l’Italia avviando la strategia della tensione e più di un decennio di terrorismo. Se si chiede, però, a un giovane di quella strage e di quel periodo, ci si scontra con una stupefacente mancanza di conoscenza. È appena uscito un altro libro, scritto da Angelo Picariello, giornalista di Avvenire, intitolato “Un’azalea in via Fani”, che offre diversi elementi interessanti per chi cerchi ancora di comprendere il contesto politico e sociale di quegli anni. La ricostruzione storica è arricchita dalla prefazione di Agostino Giovagnoli, professore dell’Università Cattolica di Milano.

Il terrorismo è stato semplicemente il frutto di un progetto di carattere nazionale per imporre un altro ordine politico e sociale, oppure è stato lo strumento di alcuni “grandi vecchi” condizionati da logiche internazionali?

Picariello, raccogliendo le voci dei protagonisti, non scioglie l’enigma di fondo, ma porta alla ribalta un ricco ventaglio di elementi. Districandosi tra episodi precisi e circostanziati, figure ambigue e sfuggenti, arriva tuttavia a dubitare che dietro il fenomeno, sanguinoso e drammatico, del terrorismo e dei sequestri si nascondesse una regia occulta. Lo scopo non era dettato da un piano preciso, ma si decideva di volta in volta chi uccidere (Aldo Moro) o liberare (Ciro Cirillo), chi preservare e chi colpire, come insinuano, ad esempio, Alberto Franceschini e Franco Bonisoli, forse i più credibili tra i protagonisti di quel periodo, citati nel libro.

Il lavoro di Picariello tratta di questi aspetti, così come delle origini storiche del terrorismo brigatista. E per quanto la ricostruzione proceda in modo meticoloso (Piazza Fontana, l’omicidio Calabresi, la resistenza tradita, l’involuzione della situazione internazionale, la paura di una deriva autoritaria suffragata dalle stragi) l’interesse dell’autore si concentra soprattutto sui risvolti umani della vicenda e sulle testimonianze di gran parte dei protagonisti di quella dolorosa stagione della storia repubblicana.

Vengono ascoltati e analizzate le figure di brigatisti come Bonisoli, Franceschini e Walter Di Cera; di poliziotti come Carlo Di Stefano; di persone che hanno conosciuto da vicino i terroristi come Nicodemo Oliverio; di parenti delle vittime come Agnese Moro o Adriana Romiti; di protagonisti della giustizia riparativa come, padre Bertagna.

Tre sono i temi, comunque, che danno al libro un timbro di originalità.

Il primo: come si fa a diventare terroristi? Un volantino di Comunione e Liberazione di quegli anni, diffuso subito dopo l’uccisione del professor Guido Galli all’Università Statale di Milano, sintetizza in modo efficace quanto emerge da molte dichiarazioni di ex brigatisti: “Terroristi non si nasce, si diventa, è frutto di una mentalità”. Non bastano, cioè, le ragioni ideologiche, i condizionamenti sociali e gli avvenimenti storici, che pure vengono presi in considerazione, quasi per una sorta di meccanismo automatico, un’inevitabilità di carattere hegeliano o marxista della violenza. Nel libro lo ammettono in tanti. Dice Franceschini: “All’epoca il fine giustificava i mezzi… Da una parte c’era un’ideologia, chiamiamola marxista o stalinista, che ha costruito un’idea di totalitarismo in base alla quale l’avversario va eliminato e chi ha il potere decide l’eliminazione degli altri”. Una mentalità che non è stata coltivata ed espressa solo dai terroristi, ma anche spalleggiata da tanti intellettuali, giornalisti e politici, che poi si sono scagliati contro il terrorismo (basta riandare all’impressionante numero di firme raccolte nel proclama contro il commissario Luigi Calabresi, che tanto ha contribuito a farne il nemico pubblico numero uno).

Ma il libro di Picariello regala qualcosa di ancor più sorprendente: racconta alcuni fatti che hanno reso l’Italia un caso quasi unico al mondo. Una volta tanto in positivo. Le leggi, le carceri speciali, la durezza e la professionalità delle forze dell’ordine non sono state l’unico e ultimo antidoto per sconfiggere il terrorismo. Alla stagione dell’inflessibilità, come ricorda Luciano Violante, non è seguita quella della clemenza, bensì quella della “democrazia e le sue regole”, con “sconti di pena, per le collaborazioni e le dissociazioni” e un regime carcerario più umano e teso alla riabilitazione. Ma non sarebbe bastato neppure questo, per molti non sarebbe servito. Quello che è avvenuto, favorito sottotraccia, è quanto si trova scolpito nella nostra Costituzione: un regime di detenzione e pena devono favorire la rieducazione del condannato.

Così è successo che non solo molti operatori all’interno delle carceri, ma anche persone esterne al sistema detentivo (uomini di Chiesa, politici, volontari impegnati nei penitenziari) hanno saputo “guardare” anche chi aveva commesso crimini efferati, aiutandoli a riscoprire nel loro cuore un desiderio di bene che non era stato del tutto cancellato. In questo modo, uomini dediti a omicidi, sequestri, attentati sono stati aiutati a prendere coscienza di ciò che avevano fatto. Alcuni hanno avuto un contraccolpo facendo esperienza del dolore per il male commesso.

Dice Bonisoli: “Solo oggi ho capito che disumanizzando la persona che vuoi colpire disumanizzi te stesso, perdi il senso della tua umanità”.

Giovanni Ricci, figlio di uno dei poliziotti assassinati nel sequestro di via Fani, confida: “Si portano addosso una croce più grande della mia, per il peso di ciò che hanno fatto” e “nulla attenuerà mai questo”. Non è previsto, infatti, il lieto fine hollywoodiano, non esiste nessun colpo di spugna. Come spiega Adriana Faranda: “Non c’è la macchina del tempo, gli errori commessi non sono riparabili, non si riporta in vita una persona uccisa”.

Eppure, la solitudine del carcere, quando qualcuno ha il coraggio di stare davanti a te senza fare sconti, costringe a svelare il fondo di te. Dice ancora la Faranda, quando pensa all’esperienza di questi rapporti: “È come se mi avesse ridato la libertà, andando oltre gli stereotipi, restituendomi la dignità di essere persona”. E Franceschini aggiunge: “Non mi sarei aspettato questo tipo di accettazione. Mi sono sentito considerato per quello che ero… Si può parlare di amicizia?”.

E proprio qui s’innesta l’ultimo, sorprendente, tassello di questo libro. Emerge plasticamente qualcosa di inspiegabile, di eccezionale: il perdono nei confronti di qualcuno che ti ha strappato una persona cara. Nell’esperienza quotidiana ci si accorge che per molto meno non si è capaci di perdonare. Invece, la solitudine che alberga nel cuore anche dei parenti delle vittime apre a una possibilità inimmaginabile, se non fossero proprio loro a descriverla.

Giovanni Ricci: “Non è stato facile concedere il perdono, ma sono loro ad averlo chiesto”. E Agnese Moro, la figlia dello statista sequestrato e ucciso dalle Br: “Nella mia vita una delle poche cose che sento sicura è la presenza familiare di Gesù… Come quando dice ‘Amate i vostri nemici’”.

Un precetto evangelico difficile da mettere in pratica? Tutt’altro, anzi, seguendo quell’invito, “tutti noi siamo più felici, viviamo meglio”. Sembra una favola impossibile da 2000 anni. Ma in realtà accade.