Cinquant’anni dopo, Adriano Sofri prova a riaprire il caso Pinelli. Tragici eventi di cinquant’anni fa. In ultra-sintesi, per chi non c’era: il 12 dicembre 1969 una bomba piazzata nella Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano fa una strage. Vengono fermati alcuni anarchici sospettati dell’attentato. Fra questi Giuseppe Pinelli, quarantenne ferroviere, ex partigiano. Trattenuto e interrogato in Questura, muore precipitando dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi. Contro il funzionario di polizia si scatena un’intensa campagna da parte delle forze di estrema sinistra e di numerosi intellettuali progressisti, che lo accusano di essere l’assassino. Particolarmente virulenta l’azione svolta dal giornale di Lotta Continua, il movimento che ha come leader Adriano Sofri.

Il 17 maggio del ’72 Calabresi viene ucciso da due militanti di Lc, Marino e Bompressi. Pinelli risulterà estraneo ai fatti di piazza Fontana. Calabresi risulterà innocente per la morte di Pinelli, con sentenza del 27 ottobre 1974 del giudice Gerardo D’Ambrosio (uomo di sinistra, futuro vice di Borrelli in Mani pulite). Sofri finisce a processo con altri nel 1989, l’iter giudiziario si conclude nel 1997 con condanna definitiva a 22 anni per il fatto di essere mandante, insieme a Pietrostefani, dell’omicidio di Calabresi commesso materialmente da Marino e Bompressi.

Ora, con un lungo articolo sul Foglio, Sofri scava e tira fuori questo o quel dettaglio, questa o quella dichiarazione con l’intento di sollevare dubbi sulla sentenza (del ’75!) che scagionò del tutto il commissario Calabresi.

Non interessa qui entrare nel merito dei fatti processuali. Nemmeno enfatizzare reazioni critiche del tipo “come osa il mandante gettare fango sulla vittima?”, che pure hanno il loro ragionevole perché. Interessa dire questo: se un senso l’operazione di Sofri ce l’ha – ed è difficile pensare diversamente per un intellettuale come lui – esso consiste nel rovesciare la memoria di Calabresi: non un onest’uomo e corretto funzionario, ma un sicario dello Stato stragista dei servizi deviati.

Stessa tesi di allora. Credo che in ballo non ci sia solo un motivo personale, del tipo: “vedete che avevo ragione io? quello era un boia” (la parola boia è stata molto utilizzata dalle forze e dai regimi marxisti come aggravante di lacchè). In ballo c’è una logica egemonica. Quella per cui chi possiede la verità storica, ne possiede il senso, ne conosce la direzione ed è quindi titolato a guidare la società. Cioè ad avere il potere. L’illuminismo ha avuto bisogno di una sua verità storica in cui la memoria del medioevo cristiano fosse cancellata dal dogma dei secoli bui; la rivoluzione francese ha preso a martellate i bassorilievi romanici e Napoleone ha smontato l’immensa chiesa abbaziale di Cluny per usarne le pietre; del marxismo citiamo solo il buffo episodio di Stalin che fece taroccare la foto di un comizio di Lenin, allungando il podio con pennellate nere in modo da coprire Trotsky, cancellandolo: l’eroe della Rivoluzione, il capo dell’Armata rossa, caduto in disgrazia… con Lenin non doveva esserci, quindi non c’era: eccola qui la foto, dove lui non si vede.

Questa è pacchiana; ma la tentazione di impossessarsi del senso della storia per il potere può essere più sottile, garbata, ma ha sempre come obiettivo il potere. Essa infatti comporta due implicazioni. La prima: chi è fuori dal senso “stabilito” della storia è avversario del progresso e quindi è il nemico da eliminare. La seconda: il mondo è diviso tra chi sta dalla parte giusta e chi da quella sbagliata; un manicheismo che irrigidisce e che esclude mescolanze e contaminazioni, e dialogo. E anche sforzo e impegno di proposta e di cooperazione.

Insomma, dipende con che animo si canta, per dire, Bella ciao. O naturalmente il suo corrispettivo da destra (ammesso che ci sia, perché a dire il vero non so qual è). O anche Noi vogliam Dio. Ma questo non lo canta (quasi) più nessuno.