NEW YORK — C’è un dito di neve in terra. Poca, ma “fa molto Natale”. Ed è pure freddo. È quel che ha lasciato quella specie di tempesta volante che ci è passata sopra ieri sera. Lo snow squall, come lo chiamano, una grande nuvola di neve, un’apparenza di bufera, un’imbiancata nella sostanza. Come ogni mattina, seguendo la solita liturgia da film, si va allo stoop, il pianerottolo esterno, si raccoglie la busta azzurra che protegge il New York Times. Una signora mai incrociata la lancia all’alba di tutti i santi giorni, anche lei come nei film.

Stamattina c’è il sole ma la front page del giornale ci racconta con un titolone cubitale dell’altra bufera di ieri, quella caduta su tutto il paese: “Trump Impeached”. È una tempesta vera o un altro snow squall?

Trump, il terzo presidente nella storia degli Stati Uniti a ritrovarsi sotto processo, continua a chiamarla “witch hunt”, una caccia alle streghe, una persecuzione fondata solo sull’ostilità politica. Anzi, una persecuzione fondata sull’ostilità a lui per come è, per quello che è, carattere, personalità, colpi di testa.

I capi di imputazione riguardano cose che Trump avrebbe fatto – abuso di potere ed ostruzione al Congresso – ma sul suo operato come guida del paese, il cosiddetto “job approval”, il popolo americano gli regala un 45% che non è niente male, e soprattutto è decisamente superiore al quel 39% che Trump incassava prima di tutto questo ambaradan dell’Impeachment. La Casa Bianca nella sua prima dichiarazione ufficiale dopo il voto della Camera non ha usato mezze parole:

“Oggi segna il culmine di uno degli episodi politici più vergognosi nella storia del nostro paese. Senza aver raccolto un voto repubblicano, e senza aver fornito alcuna prova di atti illeciti, i Democratici hanno forzato capi di imputazione illegittimi contro il Presidente  (…). Tutte queste buffonate mostrano chiaramente che i Democratici hanno perso di vista ciò di cui il paese veramente ha bisogno, che è un Congresso che lavori per la gente”.

E anche su questo va detto, che persino la Cnn con il suo “sondaggio padre di tutti i sondaggi” riconosce che gli americani contrari all’ Impeachment sono più di quelli favorevoli.

Comunque vada, qualunque strategia le parti scelgano di seguire temporeggiando o attaccando a testa bassa, certamente stiamo peggio di prima. Tutti vogliono vincere, tutti hanno paura di perdere e tutti sanno che la vittoria di una parte sarà la sconfitta piena di rancore e acido desiderio di rivalsa dell’altra. Sembra l’inizio della fine della dinamica democratica. Riuscirà il giovane cuore americano a rimanere aggrappato a quell’insaziabile desiderio di felicità che è la storia vera di questo paese o il vento degli interessi di parte lo avvizzirà?

Lo diceva già George Washington nel suo Farewell Address del 1796, il messaggio di addio del primo presidente:

“Il dominio alternato di una fazione sull’altra (…) è esso stesso un terribile dispotismo. Ma questo porta a un dispotismo più formale e permanente. I disordini e le miserie, che ne risultano, inclinano gradualmente le menti degli uomini a cercare sicurezza e riposare nel potere assoluto di un individuo; e prima o poi il capo di una fazione prevalente, più abile o più fortunato dei suoi concorrenti, trasforma questa disposizione ai fini della propria elevazione, sulle rovine della pubblica libertà”.

Ogni anno, il 22 febbraio, anniversario della nascita di Washington, due senatori leggono le 7.641 parole del Farewell Address. Una tradizione iniziata negli anni bui e dolorosi della guerra civile, un richiamo, un invito a vigilare sui passi che si fanno quando si è chiamati a guidare il paese.

Ma, lo sappiamo, le parole sono parole, hanno la forza e la tenuta che hanno.

È per questo che tutti aspettiamo il Natale. Lo aspettano anche Trump e Nancy Pelosi, gli onorevoli e i senatori, che lo sappiano o meno.

Resta l’alternativa tra una strada molto lunga ed una strada che non c’è.

Perché senza il Natale le parole restano solo parole.

Merry Christmas, and God Bless America!