Nicola Gratteri è una persona per bene. Nato tra le strade solcate da auto di lusso con alla guida facce che poi divengono da galera, ha dedicato la sua vita professionale al riscatto di tutti quei ragazzi che, come lui, hanno fatto scelte diverse e per bene ma hanno avuto meno fortuna. Uomini che oggi lavorano spesso in nero, con case approssimative e in terre dove i diritti costituzionali sono spesso un miraggio.

Il Mezzogiorno vero, quello quotidiano, vive la dicotomia tra illegale e legale con una certa assuefazione. Il giogo della violenza e il potere del denaro, da dovunque vengano, creano consenso e instradano vite su corsie parallele. Ai semafori le auto ultimo modello con alla guida famigli e liberti delle cosche sono lo spot migliore per dire che nulla cambia, mentre si affiancano a vecchie carrette senza assicurazione e revisione. La ricchezza, illecita e non, intimorisce ed educa le perone. Se vuoi emergere dalla melma delle Tac a due anni, dell’acqua salata dai rubinetti, o scappi o ti adegui al sistema e ne chiedi la tutela. L’ultima inchiesta di Gratteri è ancora al vaglio dei giudici, sarà una verifica importante per il suo lavoro di anni, ma è certo che il target è quello giusto.

Guardare ai fenomeni malavitosi mafiosi come espressione del potere economico illecito e non solo come violazione delle singole norme, leggere i rapporti di potere come un collante che va oltre la cultura dei singoli per un comune intendimento, sono le chiavi di cifratura che svelano il segreto arcano delle mafie, che è solo quello di esercitare influenza e dominio a proprio vantaggio e farlo rispettando un codice interno che accomuni gli associati e garantisca che tutto avvenga nel pieno consenso di chi deve garantire la pax

Gratteri ha conosciuto negli anni quanto le sue lotte siano a volte infruttuose, perché dopo arresti e sequestri il vuoto non viene colmato dallo Stato ma da quelli che non sono stati presi e perciò, anni fa, diede la sua disponibilità a lavorare con il Governo Renzi. Una commissione, detta Gratteri, di cui fecero parte magistrati, docenti universitari ed esperti che si avvalse della collaborazione di altre esperienze nella lotta alla mafia, come quella del magistrato Catello Maresca, castigatore di Zagaria e Setola con il pool di Napoli, di giuristi meridionali e di gruppi di studio come il Grale. Una commissione che elaborò una proposta innovativa. 

Quei contenuti furono accantonati, perché vedevano nell’estirpazione del potere economico la chiave di volta della lotta alle mafie e nel riuso immediato e controllato dei beni una necessità impellente per uscire dalla mera funzione repressiva della magistratura ed affacciarsi nella terra del riscatto.

Lo stesso Raffaele Cantone disse, parlando del suo vecchio lavoro con i componenti della commissione nel mentre si apprestava a guidare l’Anac, di essere molto favorevole a togliere ai giudici la gestione esclusiva dei beni e a reinserirli nell’economia per creare sviluppo. Ma il sistema dell’antimafia teme ogni ipotesi di valorizzazione dei beni, promuovendo politiche assistenziali, inefficaci, che spesso portano i beni stessi a perire, la ricchezza illecita e diventare disperazione economica lecita. Non servì quella commissione, inascoltata. Anzi, la mafia ha continuato ad espandersi ed ora pascola dalla Valle D’Aosta al Piemonte, dopo essersi radicata in Lombardia, Toscana, Veneto. Insomma ovunque. E il suo grande driver sono i denari che continua a far girare. Denaro, consenso e sudditanza affascinano politici e la classe dirigente in terre con accenti lontani da quelli meridionali, la lingua del potere è universale.

Il che dimostra due cose. 

La prima che non vi è una immunità culturale rispetto alla mafia. Quando agisce con i suoi metodi vince e si afferma anche con chi non ha mai partecipato alle feste in Aspromonte o odia i neomelodici. Non è il Mezzogiorno, quindi, il solo locus aemenus in cui vive, ma solo dove è nata. La mafia prospera, corrompe e affilia ovunque, perché funziona. È una emergenza nazionale reale, ogni metro quadro del Paese è a rischio o già infiltrato e la battaglia va condotta con furore e senza sconti. L’immagine è di un potere enorme e sotterraneo che ha maggior finezza delle mafie messicane ma esercita, forse, maggior potere.

La seconda è che a legislazione vigente i procuratori possono imputare reati senza avere condanne e risultati ed utilizzare la fama degli arresti solo per diventare parlamentari europei prima e sindaci poi, come il buon de Magistris, mentre chi smantella sistemi criminali accorsati, autenticamente mafiosi e segue le indagini passando le giornate tra intercettazioni ed interrogatori è destinato a non avere ascolto. Un nonsenso che produce timori e comportamenti deviati. 

Il timore che i magistrati siano sovraesposti mediaticamente (per evitare altri epigoni) crea un retropensiero nell’informazione (che ha di fatto ignorato Gratteri e la sua inchiesta) e nella politica e apre la strada a critiche prima ed all’indifferenza poi per le attività di repressione e di riscatto proposte, il che si traduce in un’incapacità di ascolto e attenzione dell’opinione pubblica per le vicende dell’antimafia ed i suoi interpreti.

La politica poi, timorosa di promuovere queste esperienze, con il suo fare indifferente ed infastidito, non fa altro che testimoniare la lontananza dai problemi reali del Mezzogiorno e quindi del Paese. E questo perché non è una sua priorità reale, perché la crescita economica del Sud e lo smembramento delle consorterie mafiose non sono emergenze da perderci il sonno (come quando dai la caccia ad un latitante) ma solo l’ennesima irrisolta questione a cui il ministro “di turno” e per caso, tirato fuori dalla rubrica dell’iPhone di un capo corrente, guarda con fare dismesso, intellettualmente infastidito, senza furore, senza l’urgenza di essere ovunque per dare ascolto e manforte a chi è in prima linea ma interpretando in modo egotico la propria funzione, non vedendo solo l’ora di coprire i talk show della domenica pomeriggio (finalmente, penserà, anche io ci vado) con qualche numerino o farsi vedere in piazza per i selfie. 

Invece è ora di investire tanto e senza timori nel Mezzogiorno, mettendo cuore e passione, mettendoci la faccia, perché in quelle zone serve non perdere altre generazioni messe in coda dietro i tubi di scappamento cromati dei soliti famigli ma portare ricchezza per rendere le persone più libere, e serve farlo ora, sapendo che i sistemi di controllo oggi sono più efficaci che in passato, invece di continuare a sperperare in Alitalia, invece di incrementare gli sconti fiscali per gli animali domestici.

Impiegandosi, anche e soprattutto, a riformare l’approccio alla lotta alla mafia dando ascolto a chi la combatte e l’ha combattuta ottenendo i risultati, invece di imporre riforme della prescrizione (di costituzionalità molto dubbia) senza ricordare che già di per sé oggi i reati mafiosi (la vera emergenza nazionale) sono gestiti dalle procure e dai tribunali in modo molto efficiente e compatibile con il baluardo di civiltà che è e resta la prescrizione.

Insomma, il Mezzogiorno avrà visto nascere il fenomeno mafioso ma ha anche dato i suoi anticorpi al Paese, personalità che hanno il volto e la vita di sacrificio e l’intelligenza di chi l’ha combattuta e sconfitta non solo incarcerandola, ma anche creando in contesti proibitivi eccellenze produttive, sviluppando capacità imprenditoriali e culturali senza cedere a lusinghe o violenza. Non aver dato ascolto a quelle voci, relegarle in quarta pagina, approfittarne per far carriera, è il peggior peccato che la politica ed i media hanno commesso ed il miglior aiuto alle mafie.

Vi si può rimediare solo prendendo coscienza che il Mezzogiorno dev’essere in agenda per il Governo come priorità per il Paese ma con suoi protagonisti veri e le sue risorse, partendo dal basso, con l’umiltà di sapere che quelli che hanno vinto che hanno sperimentato con successo le loro capacità sono quelli che vanno ascoltati e seguiti. E non per usarli come totem ma per farsi guidare, come i piloti esperti negli accessi ai porti più pericolosi, in una battaglia senza quartiere alle mafie in tutto il Paese, dal Monte Bianco all’Aspromonte.