Ora che la Coca e la plastica sono in salvo e che le auto aziendali sfrecciano leggere senza il peso dell’Irpef grazie alla pax aemiliana, imposta dal terrore di perdere e per fare da supporto alla causa antilegista, solo ora ognuno farà i suoi conti sul pallottoliere del lunedì mattina con maggior attenzione, quando i numerini dei sondaggi daranno la pagella alla settimana trascorsa sui social network dai politici.
Cosa cambierà poco conta, se non per gli addetti, ma i numeri veri sono usciti già da un pezzo e nessuno pare accorgersene. Anzi, il silenzio pare la strategia più opportuna per tutti. Sia per decenza che per pudore.
A luglio i test Invalsi hanno certificato quanto forte sia il divario nella formazione scolastica tra Mezzogiorno e resto del Paese, a dicembre lo studio Ocse-Pisa ci ha raccontato quanto enorme sia il divario tra gli studenti italiani ed il resto del mondo. Il tutto condito da chicche tutte italiane, come la naturalezza con cui la politica ha accettato il fatto che il 50 per cento dei ragazzi delle superiori che studia nel percorso professionale sia di fatto già oggi, per quei dati, un low performer, modo carino per dire che non capiscono quel che leggono e che hanno forti carenze di ragionamento matematico.
A questo si aggiunga che gli studenti con alto livello di rendimento che si aspettano di conseguire un titolo di studio superiore al diploma sono 9 su 10 tra quelli che provengono da realtà socio-economiche avvantaggiate; mentre solo 6 su 10 dei ragazzi che provengono da realtà svantaggiate, pur potendo, pensano di proseguire.
In pratica il deserto formativo che colpisce un’intera generazione di ragazzi sta disegnando un futuro in cui il Paese avrà cittadini privi di strumenti minimi per affrontare il futuro. Come se ne esce?
I tentativi di rimediare partendo dal corpo docente non sono all’ordine del giorno, anzi dopo la furia iconoclasta che ha seppellito la “Buona Scuola” renziana i voti degli insegnanti impongono di cantare solo peana sui temi delle infrastrutture inesistenti o giaculatorie celebrative della fatica di insegnare. Ogni tentavo di introdurre il merito è rigettato con ferocia. Come nella buona tradizione della pubblica amministrazione.
Inoltre, gli insegnanti poco possono se un sistema intero rema contro. Se bocci un alunno, i genitori abbienti vanno al Tar, quelli meno dotati di pecunia, ma della stessa risma, li aspettano nel parcheggio per affrontarli. I ragazzi in questo conflitto sguazzano come novelli Lucignoli, felici di essere pian piano parcheggiati da qualche parte con lo smartphone acceso. Certo, ci sono i capaci, ma sono pochi e non fanno media. E soprattuto sono sempre gli stessi geni familiari a perpetrarsi, il che non serve al Paese se poi gli stessi sono costretti ad emigrare in posti in cui le loro competenze alte verranno apprezzate.
Quel che forse serve è rimettere i ragazzi al centro. Non a chiacchiere ma dando a loro stessi la possibilità e la responsabilità di costruirsi un benessere materiale sin dalle superiori. Costruire per loro un reddito di studentanza, una dote economica che lo Stato riconosca a tutti i ragazzi che tengono medie scolastiche e risultati dall’accettabile all’eccellente, un reddito accantonato che sia a loro nome e che sia spendibile per formarsi e sostentarsi negli anni successivi, emancipandosi dalle famiglie se, e solo se, avranno avuto e continueranno ad avere un percorso formativo.
Una dote finanziaria da spendere per le rette universitarie, per i trasporti locali, per i testi, per le mense e per le spese, piccole, quotidiane. Ricaricabile e controllabile, tutto interno al sistema formativo, da costruire anno per anno grazie ai risultati effettivi conseguiti e che divenga disponibile una volta raggiunto il diploma e sia spendibile entro una età in linea con gli standard internazionali, il tutto ovviamente soggetto alle, ormai usuali, verifiche periodiche nazionali unite ai risultati scolastici conseguiti a fine anno.
Un portafoglio virtuale che divenga poi una dote finanziaria esigibile post diploma e che però dia la sensazione di costruirsi un proprio futuro a prescindere dalle famiglie di origine, che verrebbero così anche sollevate dai costi della formazione e, parzialmente, dai costi di mantenimento ma se, e solo se, avranno, assieme ai loro ragazzi, fatto un percorso formativo idoneo.
Enti di formazione ed università avrebbero più mercato e clienti da soddisfare, pagati dallo Stato tramite il portafoglio formativo, scelti dai ragazzi e da loro sovvenzionati, e gli erogatori di servizi connessi alla formazione avrebbero più spesa disponile, non a pioggia ma tramite un flusso che parte da fabbisogni reali e da fonti chiare e limpide. E i ragazzi si sentirebbero al centro delle loro scelte e delle loro opportunità.
Un dote finanziaria che sarebbe un accantonamento anticipato di risorse a favore delle future generazioni e che però produrrebbe una crescita di autonomia delle famiglie e delle imprese culturali, invogliate a guardare agli studenti come una risorsa e come un capitale vero. Un percorso da offrire a tutti i ragazzi e che costerebbe meno del reddito di cittadinanza, finito nelle mani dei furbetti, o della quota 100 che crea dei super-nonni ricchi che poi girano le paghette ai nipoti, che di quel dono faranno di sicuro balocchi.
La maturazione e la presa di coscienza anticipata dei ragazzi, stimolata dal fatto aver accumulato a fine di ogni anno una dote economica specifica, propria, non spendibile per altri e per altro, è la chiave per renderli una risorsa per se stessi e la società ed è l’unico rimedio alla deriva e al declino che una società avvolgente ed intrisa di irresponsabilità ha creato a loro discapito.
Del resto che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” lo hanno scritto nel 1946 donne e uomini cattolici e laici, partigiani e antifascisti che ben sapevano quanto della loro forza derivasse dai buoni maestri e dalla loro formazione, unico vero baluardo anche nelle famiglie. Solo la formazione aveva consentito loro, giovani e meno giovani, di resistere e reagire alle spire avvolgenti del totalitarismo cultuale.
Ed a quella saggezza dovremmo dare attuazione, per noi e per loro.