Non è che l’occasione faccia l’uomo ladro. Questo è un falso luogo comune. Però è vero che ci sono realtà, luoghi, incontri, sollecitazioni, proposte, contesti che hanno il potere di facilitare gli uomini a tirare fuori il meglio di sé. A rivelare propensioni, risorse, positività, esperienze, talenti, scoperte, cui si dovrebbe guardare, in generale, molto più attentamente e appassionatamente per capire di più il popolo nel suo farsi dal basso e per lasciarsi meno turlupinare dalle fantasmagorie della cattiva politica.
Le mille Italie locali sono (ancora) dotate di simili occasioni, magari piccole, magari in difetto di alimentazione generazionale, culturale e ideale: perché nulla dura per inerzia. Ma ci sono anche grandi eventi nazionali di popolo, che hanno quel tratto fondamentale nel loro Dna. Esempi sono (senza escludere altro): la propensione all’incontro e alla comprensione tra i popoli e le culture del Meeting di Rimini; l’attenzione alla povertà e l’espressione del naturale impulso a soccorrere il bisogno altrui della Colletta Alimentare nazionale; il gusto del buono e del bello nel prodotto del lavoro dell’Artigiano in Fiera Milano. Quest’ultima manifestazione conclusa ieri, con clamoroso successo di numeri e qualità. Il concorso di popolo a questi eventi si misura con numeri a cinque, sei zeri.
Una settimana di Artigiano in Fiera equivale a una fiumana umana ininterrotta che da treni, metro, bus e auto si riversa nei padiglioni. Sono gruppetti di amici, coppie, di tutte le età e condizioni, piccole brigate di ragazzi e giovani. Non si intercettano individui isolati: una fiumana in compagnia. Con il trolley: migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di trolley. Non solo per caricarci gli acquisti per i regali di Natale, ma anche per metterci da subito, come spiega una pioniera del trolley in Fiera, ottant’anni di età, vent’anni di frequentazione della manifestazione, il paltò, o il giaccone, o quant’altro “possa dare impiccio per tutto il giorno”.
Sicché: fiumana, in compagnia, con trolley, con lunga permanenza. Il gusto è tutt’altro dal consumo mordi e fuggi. Diversamente da un centro commerciale, qui l’estraneità si scioglie. Ci si incontra, non ci si ignora. Quando si mangia in promiscuità conviviale, ma anche quando si ascolta la musica, si visitano gli stand, si colloquia con gli artigiani: tremila, dall’Italia e dal mondo. Ognuno di essi è un talento, una storia, la traccia di un luogo, la testimonianza di un gusto del bello e un’avventura imprenditoriale unica e in qualche modo irripetibile. Fiumana in compagnia con trolley con lunga permanenza alla ricerca del bello.
Ecco, il gusto del lavoro e la bellezza del prodotto sono il cuore prezioso, il tesoro nello scrigno dell’esperienza artigianale. Si usa dire che l’artigianato è punto di incontro fra tradizione e innovazione: vero, ma questa ne è una conseguenza. Il gusto della bellezza è proprio il cuore che abolisce la divisione tra l’uomo e il prodotto, tra produttore e merce. La lingua bergamasca conserva una traccia indelebile di questa unità nella parola “laura”, lavoro, che può indicare sia l’atto del lavorare, sia l’oggetto in generale, sempre visto in connessione con il soggetto umano che vi si esprime. Pensate al confronto che vuotaggine tristanzuola è il corrispettivo italico “coso”.
Questo giacimento di risorse umane in Italia ha delle dimensioni impressionanti, nonostante la crisi: 1,3 milioni di aziende artigiane. Un pezzo tutt’altro che marginale della nostra economia. Ma soprattutto una grande scuola del gusto per la bellezza e del senso creativo del lavoro che andrebbe non trascurata, ma valorizzata e sostenuta nel riprogettare la formazione alle professioni, togliendola dalla serie B dei percorsi di istruzione; nelle politiche attive per il lavoro, che rivalutino anche quello che implica esperta manualità; negli investimenti strategici del Paese.
Di questi tempi non è difficile imbattersi in gente rassegnata a pensare come irrimediabile la mancanza di posti di lavoro, specie al Sud, e che quindi l’unica è ridistribuire i soldi per dare da mangiare a tutti. A parte che questo sistema sarebbe insostenibile, soprattutto è ingiusto e ingeneroso verso la persona umana e la sua dignità, le sue potenzialità positive e creative, il suo diritto a realizzarsi generando bene per sé e per la società. Dimensioni che appunto hanno bisogno di incontri e occasioni per essere ridestati, e di un percorso di investimento culturale ed economico per essere messi a frutto.