Il documento di Abu Dhabi, dedicato alla fraternità umana e firmato dal grande imam di Al-Azhar e dal Papa, segna un passo in avanti nell’esplorazione di ciò che può significare il concetto di cittadinanza per la comunità islamica. Un avanzamento che arriva, curiosamente, dal suolo più sacro dei musulmani (la Penisola Arabica), quando non sono ancora trascorsi cinque anni dal momento in cui una certa fazione sunnita ha proclamato un nuovo Califfato (con il progetto di imporre un’interpretazione sanguinaria e falsa della sharia). L’Islam si apre all’idea di una comunità che può servire da riferimento per le diverse appartenenze sociali e religiose, mentre, paradossalmente, in Occidente il senso del noi viene diluito da identità che quasi assolutizzano il particolare (genere, religione, lingua, etnia, ecc.).



La difesa della libertà religiosa, la condanna dell’uso della religione per giustificare il terrorismo e l’impegno a stabilire nella nostra società il concetto di piena cittadinanza e di rinunciare all’uso discriminatorio della parola minoranza contenuti nel documento di Abu Dhabi arrivano in un momento di tensione particolare in Medio Oriente. Il paventato ritiro delle truppe americane dalla Siria resuscita nel mondo sunnita la paura di un’estensione dell’influenza sciita. L’arco che va da Teheran al Mediterraneo (con il sostegno del Governo iracheno, del regime di Assad che ha vinto la guerra siriana e di Hezbollah in Libano) può essere completato. È stata questa paura a portare una certa parte del mondo sunnita del Golfo Persico a sostenere la creazione di Daesh. L’egemonia sunnita più condizionata che mai, la politica di Mohamed bin Salman in Arabia Saudita, la guerra in Yemen e il confronto tra il Qatar e la Casa di Saud sono ingredienti più che sufficienti per spiegare perché il salafismo, la corrente più conservatrice del sunnismo, si è imposto come unico riferimento. Per questo il testo di Abu Dhabi, con la sua apertura, è particolarmente significativo.



Quando un occidentale legge l’espressione “piena cittadinanza” difficilmente comprende il valore che hanno queste due parole nei paesi a maggioranza musulmana. Oliver Roy ha chiarito che nella storia dell’Islam non c’è, come spesso si pensa, un’identificazione assoluta tra la comunità politica e quella religiosa (la separazione era già apparsa nel Califfato Omeya). Ma, nell’Islam, quando c’è da affrontare il problema dello status di quei membri della comunità politica che non sono musulmani, si prende come riferimento la Costituzione di Medina redatta da Moametto nel 622 e il documento del secondo Califfo, Omar, dettato nel 637 dopo la conquista di Gerusalemme. E l’interpretazione più diffusa dei due testi stabilisce per i dhimmi (cristiani ed ebrei) un regime di tolleranza basato su una condizione di soggetto di seconda categoria che non gode di pieni diritti.



Storicamente il panarabismo della metà del XX secolo, la rivoluzione di Nasser e il Baathismo (determinante almeno nell’Iraq di Saddam e nella Siria degli Assad) implicavano un superamento della condizione dei dhimmi. Ma la svolta di Sadat in Egitto, l’influenza del salafismo del Golfo e il trionfo della rivoluzione in Iran (tutto questo negli anni ’70) hanno allontanato l’apertura a una cittadinanza egualitaria.

Il documento di Abu Dhabi non cade dal cielo. Dopo la proclamazione del Califfato di Daesh nel 2014, gli Emirati Arabi Uniti hanno creato un Forum per la promozione della pace nella società musulmana e un Consiglio dei saggi musulmani che sono serviti da contrappeso alle posizioni jihadiste. Queste due istituzioni sono strettamente legate alla Moschea di Al-Azhar, grande riferimento del mondo sunnita, e sono collegate con gli organizzatori della Conferenza di Marrakech del 2016 e della Conferenza del Cairo del 2017, tenutasi prima dell’arrivo del Papa in Egitto. Alla conferenza di Marrakesh si è parlato della necessità di scommettere sulla cittadinanza. Il documento uscito dalla Conferenza del Cairo è stata una grande novità. Ha compiuto una reinterpretazione della Costituzione di Medina in chiave civica. Secondo alcuni esperti, la dichiarazione egiziana ha riconosciuto che tutti i membri di un Paese formano un’unica umma (comunità). Il termine umma è tradizionalmente usato nell’Islam per riferirsi alla comunità religiosa e non a quella politica.

Resta molto da fare per far sì che questi testi servano come riferimento nella predicazione quotidiana degli ulema. Vedremo quali sviluppi ci saranno. In ogni caso, si tratta di una cornice dottrinale che viene in aiuto dell’Islam in Europa che, sotto l’ombrello della cittadinanza ancorata alla tradizione di Maometto, può essere inteso non come l’Islam in Europa (come una minoranza che non può partecipare alla città comune), ma come Islam europeo (identità religiosa che non implica un handicap nell’essere pienamente cittadino).

Il paradosso è che mentre l’Islam si apre a un “noi comune”, lo Stato liberale occidentale diventa incapace di mantenere in piedi un progetto di comunità civica. Lo Stato liberale basato su cittadini liberi e uguali, grazie alla tutela dei diritti soggettivi, non ci tiene uniti. I valori tacitamente riconosciuti da tutti sono scomparsi. Le identità si frammentano e diventano conflittive. Sembra che l’unica città comune in piedi sia quella dei contatti informali in cui è possibile riconoscersi e confrontarsi. Questo spiega il successo di film come Green Book.