Qualche sera fa mi è capitato di trovarmi con un gruppo di amici di Rimini che mi hanno raccontato un’esperienza veramente significativa fatta negli ultimi anni: aver accolto alcuni rifugiati mandati dalla Caritas della loro città e provenienti da Mali, Nigeria, Gambia, Senegal. Ospitati in casa e accuditi, poco tempo dopo, questi giovani hanno cominciato anche a trovare lavoro.

Tutto è iniziato perché un giorno, ritrovandosi, si sono semplicemente chiesti: perché non noi? Avevano appena ascoltato un appello del Papa e ne avevano parlato. Solo il fatto di condividere quell’idea aveva fatto svanire ai loro occhi molti ostacoli e li aveva fatti sentire pieni di risorse per fare quel passo. “Ci daremo una mano tutti insieme”. E così è stato. Quella decina di ragazzi, venuti da lontano, è ora diventata parte della vita di quelle famiglie. Tutto, mentre il refrain del dibattito pubblico sull’immigrazione, rimaneva sullo sfondo. Non lo Stato, non le associazioni umanitarie, non la società civile, ma un gruppo di famiglie amiche tra loro ha preso un’iniziativa che non ha solo cambiato la vita di tutti, ma può utilmente costituire un ribaltamento del modo con cui si pensa alle politiche pubbliche.
Non una “struttura” organizzata, ma di un posto messo a disposizione in casa; non una “lista d’attesa”, ma una paziente ricerca per passaparola di opportunità di lavoro; non l’organizzazione di un “servizio”, ma un’autentica integrazione.

Durante la cena un amico è intervenuto dicendosi commosso per il racconto che stava ascoltando, ma che quella non poteva certo essere la risposta di ordine generale al problema dei migranti. Che ne era, infatti, della criminalità, del cambiamento culturale che, alla lunga, politiche di accoglienza porterebbero e soprattutto che ne è della sottrazione di risorse agli italiani più poveri? Insomma, va bene la carità cristiana, ma meglio per tutti che ognuno stia a casa sua. O meglio: il caso particolare colpisce, ma quando si deve parlare di soluzioni politiche sembra non offrire suggerimenti validi.

Invece la politica, a riguardo dei migranti e non solo, può guadagnare molto se si ragiona in termini sussidiari, guardando i fatti virtuosi e cercando di trarne conclusioni generali. Queste famiglie sanno accogliere e inserire i migranti: perché non farne un modello su grande scala, visto che solo quando c’è una comunità umana chi viene da terre e costumi lontani si integra? Perché non è ancora stato fatto un censimento di tutti coloro che sono disponibili ad accogliere dei migranti? In fin dei conti, se non ci fosse il privato sociale con le miriadi di associazioni come il Banco alimentare e la Caritas a rispondere al problema della povertà, lo Stato non ce la farebbe mai.

Ma l’obiezione superficiale è che i migranti portano via il lavoro agli italiani. Proprio guardando il caso riminese e altre situazioni, si può osservare invece che, nella maggiore parte dei casi, chi arriva riempie vuoti in lavori che gli italiani non fanno più: raccogliere la frutta, mungere le vacche, fare lavori pesanti in fabbrica. O in città come Milano, che hanno saputo costruire modelli di integrazione, gli immigrati diventano spesso piccoli imprenditori in edilizia, nel commercio, offrendo servizi a buon mercato per i meno abbienti.

Del resto, chi guarda la realtà si accorge che il crollo demografico in Italia, più marcato che negli altri Paesi occidentali, può essere parzialmente contrastato proprio dai migranti, se vorremo domani poter pagare pensioni e sanità con i contributi di chi lavora oggi.

Ma nella stessa serata con gli amici di Rimini sono emersi altri aspetti da valorizzare: qualcuno ha raccontato l’esperienza dell’adozione a distanza, che ha permesso a bambini e ragazzi di andare a scuola rimanendo nei loro Paesi d’origine. È un “aiutiamoli a casa loro” contrario al disinteresse che è in grado di garantire educazione, istruzione, possibilità di lavoro a persone nei loro Paesi. È più realista pensare che si potrebbe, con fondi pubblici, supportare e moltiplicare l’incidenza di questi interventi concreti o optare per i cervellotici e assurdi progetti che si vorrebbero per l’Africa?

Circolano strani documenti di impronta governativa, secondo cui l’Africa per superare i suoi problemi deve imitare la Cina: un controllo della natalità forzata come quella che impedì in Cina di avere il secondo figlio. Dopo averli colonizzati, sfruttati e umiliati, si pretende pure che la cultura degli africani si pieghi a metodi coercitivi in ambito familiare.

Sempre in quella sera, altri amici parlavano di progetti di cooperazione allo sviluppo che, laddove sono effettuati in zone di guerra o di fame, danno un futuro a comunità locali. Perché allora tagliare questi fondi come si è fatto negli ultimi anni nell’ambito della cooperazione internazionale, per poi lamentarsi che gli africani fuggono dalle loro terre?

Tanti altri temi sono stati affrontati, come l’integrazione tra culture e religioni diverse e la crisi demografica che obbliga a tenere in considerazione il fatto che dei migranti abbiamo bisogno.

Non è un caso e non è solo una necessità. Tutto l’approccio ai temi delle migrazioni, che pur è così ben utilizzato per cercare facile consenso nell’opinione pubblica, si nutre per lo più di mistificazioni e forzature. Gli italiani pensano che ci sia il 30% di migranti in Italia, mentre sono solo l’8,5%. Perché così poche voci smentiscono queste false notizie?

E ancora: se si parte dall’esperienza, non si può non ricordare che per lo sviluppo dell’Europa c’è voluto un piano Marshall, mentre molta dell’immigrazione nasce oggi dal neocolonialismo europeo e cinese, che fomenta guerre sanguinose e distruzione di risorse.

Partire dall’esperienza non significa non tenere conto del quadro macroeconomico, non guardare alla programmazione di lungo periodo. Tutto questo è necessario, ma se le soluzioni nascono osservando l’esperienza di fatti particolari, la politica è più intelligente ed evita colossali cantonate che saranno visibili solo tra qualche anno. Le politiche dall’alto che non tengono conto della realtà dei fatti perpetuano questo tipo di errore.