Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha concesso la grazia a due anziani signori di quasi novant’anni, colpevoli di aver ucciso le mogli gravemente inferme, mossi dalla volontà di porre fine al dolore atroce della persona amata. E anche, verosimilmente, mossi dall’incapacità di sopportare il loro dolore. La storia è veramente triste e penosa. E si svolge dentro il perimetro del mistero dell’essere umano.

Vitangelo Bini ha 89 anni. Prima di andare in pensione era ispettore dei vigili urbani di Firenze, ormai tanti ma tanti anni fa. La moglie Mara aveva l’Alzheimer in una forma grave. Lui aveva sacrificato la vita per accudirla con tutte le attenzioni possibili. Per dodici anni. Per poi cercare di mettere fine a tutto con quei colpi di pistola esplosi contro di lei, nel letto del reparto dove era stata ricoverata.

Giancarlo Vergelli ha 88 anni. Il dolore indicibile iniziò tanti anni fa, quando il figlio appena ventenne si tolse la vita. La moglie Nella ne ebbe un contraccolpo micidiale, fino a sprofondare nel gorgo implacabile di una malattia degenerativa. Lui a un certo punto decise che la moglie non avrebbe più dovuto soffrire, che la misura era colma, che più di così era disumano, inaccettabile. Strangolò la moglie con una sciarpa e rimase un’ora e più a vegliare il cadavere prima di costituirsi.

Sono situazioni limite. Estreme. Così almeno ci sembra. Ma estreme fino a che punto, poi? Siamo così sicuri che situazioni simili non ci attendano al varco? Per un anziano genitore, o una moglie, o un figlio.

Perché la cosa inquietante, nel senso che ci sgomenta e ci interroga, è questa: sia Vitangelo sia Giancarlo hanno dichiarano da un lato, senza farsi sconti, di sentirsi omicidi; dall’altro di averlo fatto per amore. Terribile, insanabile contraddizione di un amore che uccide l’amata. Hanno ringraziato Mattarella per la grazia. Ma non hanno gioito neanche un po’. Hanno anche ammesso che il loro disperato dolore li porterebbe a ripetere un gesto omicida che non approvano. Il peso di quello che hanno fatto, nessuno lo può cancellare. Men che meno loro, che non pensano neanche a dimenticarlo, ché tanto sarebbe impossibile.

Vertiginosa contraddizione. E chi diavolo la può risolvere? E in che modo? Con una regola, una norma, un codicillo, una casistica? Io dico: meno male che non c’è una normativa ad hoc che pretenda di soppesare anche il dramma dell’umana disperata generosità, o della presunta generosa disperazione, davvero non saprei come meglio dire. Benvenuto sia uno spazio in cui la legge dichiari la sua insufficienza, la sua ritrosia, il suo autolimitarsi.  

In questa tragedia e in questo ritrarsi della legge è ravvisabile il baluginìo di due luci.

Per prima cosa, l’equilibrio dei giudici. Gemma preziosa e rara dopo il 1992. I due anziani mariti erano stati condannati, avendo commesso un reato grave, secondo la legge vigente; e di lì giustamente non si poteva scappare. Condannati tuttavia al minimo della pena – sei-sette anni – in base a una considerazione per così dire umanitaria, legittimamente esercitata dai giudici, delle circostanze eccezionalmente drammatiche. La legge del resto non contempla quella fattispecie, cioè l’omicidio per così dire umanitario. Ed è bene che sia così. E’ bene che la legge non pretenda di esser la soluzione schematica e precostituita di un rebus – a dir meglio, di un mistero del cuore umano – con l’inevitabile conseguenza di alimentare la disputa da talk show tra arcigni colpevolisti e superficiali innocentisti.

La seconda luce è il gesto del presidente Mattarella. La grazia che egli ha concesso, usando dei suoi poteri costituzionali, non è un atto dovuto, ma appunto una grazia. Scritta con una g minuscola che accenna – perché no? – alla stessa parola scritta con la iniziale maiuscola. Il delitto chiama sanzione; ma il peccato chiama il perdono. Poter invocare la misericordia è tutto quello che si può dire e fare.

Noi vorremmo levarci di torno il dolore. E ci sembra più che ragionevole. Però ho conservato una pagina del Corriere del 27 dicembre 2018, che riporta un’omelia di Joseph Ratzinger del 1978. Il succo è che “un mondo senza dolore non è umano”. Ci vuole un’intelligenza eccelsa e un’audace libertà come la sua per fare una simile osservazione. Ratzinger citava il marxista Bertolt Brecht: “Vogliamo un modo in cui ci sia più bisogno di amore”. E commentava: “Un mondo così, dove il sistema provvede già a tutto, sarebbe un mondo disumano. E più avanti: “Far scomparire il dolore e cambiare il sistema così che non ci sia più bisogno di consolazione significherebbe toglierci l’umanità”. Dice poi che “essere uomini, talvolta, ci è troppo pesante”, preferiremmo farne a meno. E ancora, che Dio si è messo con noi, “è entrato nella solitudine dell’amore distrutto come uno che condivide il dolore, come consolatore. Questo è il modo divino della consolazione”.

Più recentemente Papa Francesco, alla domanda di un ragazzino delle scuole medie che gli chiedeva conto del dolore innocente, ha risposto di non avere una spiegazione, e che l’unico atteggiamento era quello di contemplare il figlio di Dio innocente crocifisso.

Poi ho un amico, con la moglie affetta da anni da una grave malattia degenerativa. Prima assistita in casa, con sua eroica dedizione; poi ricoverata in un’ammirevole casa di cura. L’amico è lì, tutti i giorni; alterna baci e carezze alla moglie chissà quanto cosciente e quanto ma certamente sofferente, alla preghiera e alla meditazione. Forse un tempo ha creduto di poter fronteggiare la situazione, poi si è per così dire arreso. Non per un atto di viltà o di stanchezza, per un gesto di coraggio, di accettazione dell’aiuto a fronte della propria ammessa insufficienza. Consegnandosi nelle mani di altri: e soprattutto di un Altro.

Che altro dire?