Le elezioni che si terranno in Spagna il 28 aprile metteranno fine al ciclo iniziato con quelle svoltesi nel dicembre del 2015. O forse no. Le votazioni di poco più di tre anni fa si erano svolte in un Paese che aveva fatto un grande sforzo per rispondere alla crisi. I tagli di Zapatero e le riforme di Rajoy avevano lasciato una sensazione di stanchezza e di una presa di distanza di molti elettori dai partiti, Pp e Psoe, che avevano guidato il Paese per decenni. La sofferenza economica e sociale, la corruzione e il disincanto hanno fatto sì che molti elettori, specialmente i più giovani, abbiano cercato altre opzioni. È saltato quindi in aria il bipartitismo. Né le nuove né le vecchie formazioni erano preparate per affrontare una situazione in cui era necessario formare alleanze.

I socialisti non hanno lasciato governare il Pp di Rajoy perché erano andati molto oltre nel criticare la gestione della crisi. E la nuova sinistra, Podemos, non ha permesso al Psoe di governare con i liberali di Ciudadanos. Impensabile una grande coalizione tra socialisti e conservatori (nonostante diversi punti di contatto) in un Paese dove la dialettica del nemico domina la vita pubblica dal 2000. Praticamente l’intera classe politica in questo periodo ha voluto strumentalizzare il disincanto e portarlo verso una crescente polarizzazione che colonizza ideologicamente l’esperienza sociale vissuta durante la crisi. Invece di evidenziare tutte le energie positive mostrate, i vecchi e i nuovi partiti hanno favorito una lettura di ciò che è accaduto in termini di dialettica degli opposti.

Si è dovuti quindi tornare al voto nel 2016. E questa volta i socialisti hanno lasciato governare il centrodestra, ma Rajoy non è riuscito a capire che governare è più che gestire l’ordinaria amministrazione e i casi di corruzione hanno minato il credito del suo partito. Non ha nemmeno compreso e ben reagito al processo secessionista in Catalogna. E Sánchez, dopo il successo della sua mozione di sfiducia, invece di indire elezioni ha deciso di formare un Governo. Era impossibile finire la legislatura a causa del scarso sostegno parlamentare di cui godeva e perché aveva bisogno del sostegno degli indipendentisti. Ma il leader dei socialisti era interessato, soprattutto, a usare la premiership come strumento di promozione personale per le successive elezioni.

Otto mesi fa era evidente che non c’era la via che solo Pedro Sánchez pensava di aver visto per ottenere il sostegno degli indipendentisti catalani e non violare le regole costituzionali basilari. Fin dall’inizio si sapeva che il secessionismo non avrebbe rinunciato alle proprie istanze massimaliste, mentre non era ancora iniziato il processo ai suoi dodici dirigenti accusati di aver tentato la secessione. Se ci sarà un momento per una soluzione politica (tutta da esplorare) alle rivendicazioni di indipendenza di metà dei catalani, questo sarà solo dopo la sentenza definitiva in questo processo.

La mancanza di sostegno a Sánchez ha trasformato questi otto mesi in un esercizio di propaganda politica con poche iniziative di legge. Sarebbe stato interessante se il Governo Sánchez avesse portato avanti una classica politica economica con il sostegno dei populisti. Avremmo visto se i socialisti di sempre sarebbero stati in grado di avere il consenso socialdemocratico e della nuova sinistra. Ma Sánchez non aveva abbastanza deputati per fare alcunché. Il suo progetto di bilancio era tecnicamente un disastro a causa della mancanza di entrate. L’unica cosa che rimane come eredità è un aumento delle pensioni e degli stipendi dei funzionari pubblici (pianificato da Rajoy) e del salario minimo che può distruggere l’occupazione. Il lascito include anche uno squilibrio fiscale di 13,2 miliardi di euro.

Il problema fondamentale non è che Sánchez abbia puntato su politiche espansive di spesa (come aveva già fatto Rajoy) in un momento di rallentamento. La sfida di recuperare i livelli di uguaglianza pre-crisi resta. Il danno maggiore è diffondere il messaggio che sia sufficiente aumentare le tasse e spendere di più per tornare a una situazione simile a quella che esisteva prima della crisi. Le sfide sono più complesse in un Paese dove la maggior parte delle piccole e medie imprese non è abbastanza grande per competere, in cui gli investimenti in Ricerca e sviluppo sono scarsi, in cui i rendimenti scolastici sono ancora deludenti (non c’è una formazione professionale sufficientemente sviluppata) e in cui il modello produttivo non può continuare a basarsi sulla svalutazione salariale. In un mondo globalizzato è irresponsabile non fare un discorso economico che chiami alla responsabilità sociale e personale.

Insieme alla “restaurazione dello Stato sociale perduto”, un altro tratto distintivo del Governo-propaganda di Sánchez è stato la polarizzazione. C’è stata un’intensa attività in tutto ciò che si riteneva potesse far recuperare il voto perso dalla sinistra populista. Da qui la riesumazione, non realizzata, dei resti di Franco, che è stato uno dei punti centrali dell’agenda degli ultimi mesi. O la tentata controriforma dell’istruzione che cercava di recuperare i segni di identità più ideologici. O il riconoscimento dell’eutanasia quando ancora al Congresso si stava trattando su una legge relativa alle cure palliative. Al Governo non importava che non ci fosse il tempo per materializzare questi progetti.

Il ciclo iniziato nel 2015 potrebbe terminare il 28 aprile se, come i sondaggi prevedono, il PP, Ciudadanos e Vox otterranno insieme una larga maggioranza. O forse no. Perché Pp e Ciudadanos hanno mostrato segni più che evidenti di essere contaminati da una polarizzazione che li ha portati a parlare anche della Repubblica e della Guerra Civile per criminalizzare i propri avversari o a confrontare il movimento indipendentista con l’Eta. La malattia della polarizzazione non si vince solo con un cambio di governo, senza dubbio conveniente.