Una nuova Invencible Armada minaccia “l’interesse nazionale e la sicurezza dei cittadini” della Gran Bretagna. Si chiama Shamima Begum, ha 19 anni, a 15 anni è fuggita da Londra in Siria per arruolarsi nell’Isis. Lì si è sposata con un ragazzo jihadista olandese, Yago Riedijk, che ha sei anni più di lei. Da lui ha avuto tre figli. I primi due sono morti per malnutrizione, nelle pazzesche condizioni della guerra. Il terzo, nato nel campo profughi di Al-Hoi, nel Nord della Siria, a metà febbraio, affetto da crisi respiratorie e probabilmente da una polmonite, Shamima voleva a tutti i costi salvarlo facendolo curare in un ospedale di sua maestà britannica. Per questo aveva chiesto di poter tornare a Londra. Niente da fare. Anzi, si è vista togliere anche la cittadinanza, per decisione del ministro per gli Affari interni, il 50enne ex-banchiere Sajid Javid. Secondo il quale esistevano le “circostanze eccezionali” che consentono la privazione della cittadinanza, vale a dire “quando qualcuno rifiuta i valori fondamentali del nostro paese e appoggia il terrorismo. Dobbiamo mettere al primo posto la sicurezza del Regno Unito”. A costo di violare i diritti umani? Sempre il titolare dell’Interno ha assicurato (come è buono lei!) che comunque il piccolo Jarrah avrà la sua cittadinanza, perché “i bambini non dovrebbero soffrire e se anche un genitore perde la nazionalità, questo non ha conseguenze per il diritto del figlio”. Che infatti, il 7 marzo, è morto.
E adesso eccola là, l’invincibile Armada tanto temuta: tre mucchietti di terra in mezzo ad altre centinaia e centinaia di povere sepolture. E una madre adolescente senza più figli e senza più patria: uno scarto, proprio nel senso che dà a questa parola papa Francesco.
Bisogna ammetterlo: quando si mette al primo posto la sicurezza, proprio sempre al primo, proviamo a pensarci bene, è perché si ha paura. E la paura è più data dalla propria (più o meno borghese) insicurezza esistenziale che dalla razionale ponderazione della minaccia. E allora bisognerebbe prima di tutto andare alla ricerca di qualcosa che sia in grado di battere la paura; e, se convinti di averlo incontrato, condividerlo.
Sarebbe bello che l’Europa fosse lo spazio morale di questa condivisione: meglio, no?, anche dell’euro-sovranismo macroniano.
Comunque il paese di my name is Bond. James Bond avrà ben altri mezzi per contrastare il terrorismo che non quello di scartare le adolescenti spose dell’Isis. E’ o non è il Regno Unito la patria del primo manifesto dei diritti umani, la Magna Charta Libertatum del 1215? Lo è, lo è. Anche se a dire il vero, già l’anno dopo, il successore di Giovanni senza Terra apportò delle modifiche restrittive. Doveva garantire la sicurezza, diceva. Combinazione: si chiamava Guglielmo il Maresciallo.
Intanto il marito di Shamima ha chiesto di poter tornare in Olanda insieme alla giovane moglie. Sa benissimo che facilmente si prenderà qualche annetto di galera. Ma in qualche modo una via d’uscita ci deve pur essere. Vediamo se i tulipani si mostreranno più saggi della perfida Albione.
Perché una via d’uscita dagli anni del terrorismo islamico per tanti giovani occidentali arruolati nel Daesh bisogna pur studiarla. Le loro vicende non saranno tutte strazianti come quella di Shamima Begum, ma sono tutte drammatiche. Le follie, gli errori e i delitti di questi ragazzi, perché spessissimo di ragazzi si tratta, sono frutto di un disagio esistenziale all’interno delle nostre società, di un nichilismo esasperato che pure non ci è estraneo né esterno, di una radicalizzazione in senso islamista e jihadista che quasi sempre avviene dopo la droga e il carcere.
I giovani jihadisti europei che hanno combattuto per il Daesh in Siria e Iraq sono qualche migliaio. I paesi scandinavi hanno lanciato l’idea di una Norimberga europea, cioè di un tribunale internazionale che giudichi con equilibrio i reati commessi, evitando trattamenti troppo diversi a causa dei singoli ordinamenti statali e scongiurando anche eventuali arbìtri provocati da spinte emotive. Norimberga, se qualcuno non lo ricordasse, è la città tedesca dove nel 1945-46, alla fine del conflitto mondiale, venne insediato il Tribunale internazionale costituito dalle potenze vincitrici e dove si svolsero i due maxi-processi ai gerarchi nazisti di alto e medio livello.
Un tribunale europeo per i foreign fighters potrebbe non essere una cattiva idea, anche se, a occhio, per niente facile da realizzare. Sarà utile che gli esperti di diritto ne discutano. In ogni caso è ragionevole pensare che la sola strada punitiva – per quanto necessaria e inevitabile – non sia sufficiente. Occorre l’offerta di opportunità di re-inserimento – di un nuovo inizio – per ciascuno. L’Italia è il paese europeo con meno foreign fighters, segue la Spagna. Quelli che ne hanno di più sono Francia, Belgio e Inghilterra. Non è un caso: in fatto di integrazione, al di là di tutto, siamo migliori. C’è un’altra cosa in cui l’Italia vanta un’esperienza assai positiva: l’uscita dagli anni di piombo, resa possibile anche da un paziente e difficile confronto tra brigatisti incarcerati e autorità dello Stato, che ha portato nel 1987 a una legge (bocciata solo dal Msi) per la de-carcerazione e la riduzione della pena. Le responsabilità penali personali non furono certo annullate, anzi: ma la dissociazione politica dal terrorismo consentì di arrestare tanti brigatisti, permise al Paese di uscire dall’incubo e ai combattenti armati, scontata una ragionevole pena, di tornare a vivere e, non di rado, a rendersi utili alla società. Ci fu ragionevolezza ed equilibrio, da entrambe le parti (Cesare Battisti, per dire, era già scappato da Mitterrand e non partecipò a questo processo. Con quali seguiti, lo si è visto).
Forse quella pagina di storia italica ha da insegnare qualcosa all’Europa di oggi.