La scorsa settimana Mario Draghi ha parlato di un rallentamento dell’espansione economica in Europa che durerà tutto l’anno. Il notevole ribasso delle previsioni di crescita per il 2019 in poche settimane (dall’1,7% di dicembre all’1,1% di inizio marzo) e, soprattutto, la forza delle misure di politica monetaria adottate finora, mostrano quanto sia alto il rischio di ritornare in crisi. Sia la Bce che l’Ocse hanno negato la possibilità di una nuova recessione (due trimestri di crescita negativa), ma ci sono esperti meno ottimisti.

Cosa succede all’Europa? Un’altra ricaduta, quando, per di più, nel mese di maggio le elezioni possono provocare uno tsunami politico? L’economia del Vecchio continente è una delle più esposte alla situazione globale. Uno starnuto dei due giganti, Stati Uniti e Cina, significa raffreddore o influenza in Europa. L’ultima crisi ci ha insegnato che non esistono mercati perfetti, il rapporto tra offerta e domanda non segue leggi fisiche neutre che generano, automaticamente, benessere. Ci sono molte “perturbazioni” che non consentono di trasformare l’egoismo di chi compra e vende in una globalizzazione proficua.

Cina e Stati Uniti competono in una guerra tecnologica e commerciale, animate da un impulso nazionalista, e questo non significa più crescita per tutti. Al momento implica una diminuzione degli acquisti all’estero e ciò riguarda noi europei, in particolare il settore industriale (automobilistico) tedesco. Anche le aspettative negative di una Brexit senza un accordo a causa del nazionalismo britannico ci danneggiano. In questo contesto è difficile comprendere l’entusiasmo di alcuni per “la soluzione russa”, un altro nazionalismo con gravi problemi economici e demografici, che può offrire sì gas, ma soprattutto destabilizzazione democratica e fake news (i suoi due prodotti preferiti).

In questo contesto di rischio è essenziale ricordare ciò che abbiamo imparato nell’ultima grande crisi: l’ingenuità liberale non è all’altezza dei problemi. Siamo in un mondo globalizzato in cui le sovranità nazionali non hanno praticamente alcuna capacità di intervento. Mancano decisioni politiche con più peso rispetto a quello che può fare un singolo Paese. Allo stesso modo, anche se può apparire paradossale, è necessario sottolineare il protagonismo della persona, non come individuo isolato che è in grado di trarre profitto dal mercato, ma come soggetto relazionale, dotato di tutta una serie di risorse e competenze per ricostruire e reinventarsi in un mondo globale e in un rapido processo di digitalizzazione, un mondo in cui le vecchie forme di lavoro tendono a scomparire.

Draghi e Merkel sono state probabilmente le due persone che hanno fatto di più per la sopravvivenza dell’euro. La Merkel è stata più limitata dalla sensibilità tedesca, ossessionata dal mantenere l’inflazione praticamente a zero, dall’austerità fiscale e dall’ottenere il massimo ritorno sui propri risparmi. In questo momento è incomprensibile che con il Paese sull’orlo della recessione il 2018 sia stato chiuso con un surplus fiscale record. La Germania deve smettere di risparmiare, deve spendere e violare, come ha fatto 20 anni fa, il Patto di stabilità. Quando la spesa pubblica e privata della Germania inizierà ad aumentare, il resto dell’Eurozona comincerà ad aumentare la propria attività.

Ma Draghi sa che ciò non è abbastanza e per questo la scorsa settimana ha preso una drastica decisione in uno dei pochi organi effettivi di quel governo europeo di cui abbiamo bisogno. Ha posticipato il rialzo dei tassi (lascerà la Bce senza averli aumentati) e ha lanciato il terzo programma di liquidità Ltro per le banche. Contro “l’ortodossia tedesca”, che nel 2010 stava per far fallire l’euro con un rialzo dei tassi nel momento più inopportuno, Draghi è stato in grado di dire che farà tutto il necessario per tenere in vita la moneta unica. Ha lanciato il primo Ltro e, quando è stato insufficiente, ha lanciato il programma di acquisto di obbligazioni. Ha messo in chiaro che era disposto a usare tutte le munizioni possibili. Se i programmi di espansione fiscale in Germania non funzioneranno, se il programma Ltro non basterà (quello del 2011 non è bastato poiché la maggiore liquidità delle banche è stata utilizzata per acquistare obbligazioni), si dovranno tirare fuori armi più pesanti. Occorre fare politica, in questo caso politica monetaria. Accompagnata da un’accelerazione della costruzione del governo dell’euro.

L’Unione bancaria avanza in materie così specializzate che il suo progresso non è percepito. L’accordo di Francia e Germania per un bilancio è risultato limitato rispetto a un intervento efficace che crei stimoli. L’Unione europea sta progredendo lentamente, ma non ne abbiamo un’altra. I discorsi di esaltazione nazionale sono un esercizio irresponsabile. La politica europea è necessaria, ma richiede un esercizio di responsabilità personale da parte degli europei.

Siamo troppo attaccati a forme di lavoro che sono diventate obsolete. È inutile proteggere i posti di lavoro quando bisognerebbe dare maggior protagonismo a un lavoratore che, grazie a una rete formale e informale di relazioni e di fiducia, può essere creativo, innovativo, capace di acquisire nuove e vecchie competenze in un processo di formazione permanente.