Siamo sicuri di conoscere bene i nostri giovani? Ci sono ragazzi che, in genere, vengono definiti normali e vivono storie che ti fanno arrossire o commuovere. Non hanno aspettative grandiose, non vogliono diventare dei protagonisti della storia o della cronaca. Sembrano anche disinteressati ai prototipi che escono dagli schermi televisivi, dai vari serial che sono seguiti, distrattamente, un po’ da tutti.

Quando ascolti la storia di questi ragazzi normali, ti viene spontaneo chiederti: ma quale Paese, rispetto alle aspettative e alle aspirazioni di questi giovani, abbiamo creato? In quale landa viviamo?

Siamo a Milano, in una periferia particolare, una di quelle che vanno sotto la pomposa classificazione di zone residenziali. Siamo a Milano, cioè in una delle città che un tempo era la terza più ricca del mondo, ma che ancora adesso è famosa per essere una “capitale europea”, una “città europea”, capitale di una regione tra le più ricche d’Europa (la zona più ricca del mondo), che contende alla Baviera e ad altre zone europee e del mondo il primato del benessere e anche del vivere bene.

Erica è una ragazza di 21 anni. È dolce, carina, non appariscente, ma dotata di una determinazione incredibile. Lei vive con padre, madre e fratelli in una zona che confina (una strada) con il quartiere residenziale. Erica frequenta l’università, ma non vuole pesare economicamente sulla sua famiglia, anzi collabora, se così si può dire, al bene comune familiare. Quando è libera dagli impegni universitari, sia dalle lezioni, sia dallo studio, Erica fa letteralmente di tutto, per guadagnarsi da vivere. C’è da pulire una casa o da accudire una persona? Ecco Erica, che senza alcuna forma di malinconia, si trasforma in una domestica a ore tuttofare. E lavora bene, con passione, interessandosi della casa e guadagnando 9 euro all’ora. Poi ci sono da assistere alcune persone anziane, magari per un periodo limitato della giornata ed Erica diventa una badante a ore. Infine, ma forse non è l’ultimo dei suoi lavori, Erica trova il tempo per dare lezioni collettive e singole ai ragazzi delle scuole medie e delle superiori. Specifica, quasi con civetteria: “Tranne che le lezioni di matematica”.

Sorridente, ti chiede di non “buttare il pane raffermo”, perché serve alle galline (quattro) che suo padre tiene nel giardinetto di casa. In più, spiega: “Se vuole fare un invito a qualcuno, mi chiami pure a cucinare. Le porto le uova fresche delle mie galline e faccio un’ottima carbonara”.

Ma perché fa tutto questo? Spiega Erica: “Cerco di aiutare la mia famiglia, di non pesare sui miei genitori e capisco che viviamo in tempi di grande incertezza. Basta guardarsi intorno e parlare con le persone. Che cosa altro mi rimane se non darmi da fare per avere un futuro discreto e una vita che mi permetta di continuare gli studi?”

Cambia storia e appare Daniele, 33 anni, robusto al punto che ti sembra un duro determinato. Al momento cerca lavori con un’impresa che si occupa di traslochi di casa, trasporti, allestimento di mobilio, anche arredamento indispensabile e tutto quello che è connesso al funzionamento di un appartamento. È difficile approfondire un discorso con Daniele su quello che guadagna e sui suoi contratti in corso. È lui che parla per primo, con accenti di grande rancore che sconfinano nella condizione sociale e nella direzione politica del Paese.

“Ho 33 anni – dice Daniele – e sono padre di tre bambine. Non sono quindi responsabile del calo demografico e dell’invecchiamento di questo Paese. Fino a 28 anni, cinque anni fa avevo un lavoro di tutto rispetto con un contratto a tempo indeterminato in una grande impresa italiana. Improvvisamente mi scoprono quella che viene definita aritmia maligna del cuore. Mi ricoverano, mi curano e mi inseriscono un defibrillatore”. Mentre sta montando una biblioteca, fa vedere il segno sul petto dove è stato inserito il defibrillatore. Si nota solo una piega rialzata della pelle.

Brutta esperienza? “Neppure tanto – dice Daniele. Sono le conseguenze sociali che ti annichiliscono più della malattia di cui soffri. Nell’azienda dove lavoravo, appena hanno saputo della mia malattia, mi hanno licenziato. Sono portatore di una invalidità che, secondo lo Stato italiano, mi garantirebbe 270 euro al mese. E allora, a questo punto con tre bambine da mantenere, che faccio? Accetto qualsiasi tipo di lavoro, anche quelli che forse non sono indicati per uno nelle mie condizioni di salute. Resisto e vado avanti. Ma come vede non sono tranquillo e parlo con una venatura di autentica rabbia che a me pare comprensibile. Non ho grilli per la testa, non vorrei diventare ricco, ma avere un minimo di tranquillità per me e la mia famiglia, per le mie tre bambine. Mi sono messo in lista per ottenere una casa popolare: sa in quale posizione mi trovo? Al numero 305. Mi dica lei come fa a credere nella politica, in questa politica, in questo Stato, in questo Paese. Mi fanno ridere quelli che si stupiscono per i mutamenti elettorali che avvengono. Per quanto mi riguarda è già tanto che io vada a votare”.

Quella di Erica e Daniele sono due storie di eccezionale normalità italiana che affrontano la realtà, guardano in faccia le difficoltà e non si fanno immobilizzare dal rancore e dal risentimento. E alla fine, nel loro piccolo, sono gli esempi che dovrebbero fare notizia.