La trasmissione in diretta, via Facebook, del massacro (quasi 50 morti) perpetrato in Nuova Zelanda da Brenton Tarrant aggiunge un tocco di ripugnante spettacolo all’atto di terrore. Il terrorismo è sempre stato un atto di propaganda. Ora l’odio per i musulmani può trasformarsi in un video diabolico, con un aspetto di gioco, in un mondo in cui è sempre più difficile distinguere la realtà dal virtuale. Una mattanza islamofoba quando da otto anni si combatte una guerra in Siria in cui il jihadismo di Daesh ha compiuto genocidi sistematici. Lo stesso nichilismo con diverse maschere. Volontà di distruzione dell’altro e di se stessi.
Solo poche voci danno un respiro e indicano il cammino in un mondo in cui il nulla sembra essere diventato padrone. Una di queste è senza dubbio quella di Vasilij Grossman, che appare di nuovo luminosa con la pubblicazione in Spagna del suo ultimo libro “Il bene sia con voi!”. È un Grossman come sempre preciso, profondo, sobrio, nella descrizione dei colori e dei dolori del mondo. È stato appena messo ai margini per via della sua opera “Vita e destino” e inviato, nei primi anni ‘60, in Armenia. Gli viene dato l’incarico di tradurre un testo da una lingua che non conosce.
Il grande scrittore è malato, nessuno lo accoglie dopo un lungo viaggio, nessuno è interessato alla sua opera, è oppresso dalla devastazione della natura umana del regime sovietico. Ma nell’incontro con le persone, nella bellezza, nella fede dei semplici, trova una via in cui nulla gli sembra banale o semplicemente di routine, come se per la prima volta partecipasse a un meraviglioso e solenne dramma in un solo atto armonioso: la vita.
Grossman si stabilisce nel villaggio armeno di Tsaghkadzor e nel rapporto con la sua popolazione trova la sua strada. I vicini della città, le loro storie dolorose, il loro desiderio di affermare il bene nonostante il male sofferto, nella penna dell’autore di “Vita e Destino” acquistano la bellezza che solo le cose concrete hanno. E lo scrittore sottolinea che il nazionalismo di chi attacca e il nazionalismo di chi si difende sono molto simili. Per questo è essenziale abbandonare il rigore ferreo degli stereotipi per tornare all’umano; occorre scoprire le ricchezze delle anime, dei caratteri e dei cuori umani. Mentre Grossman scrive le storie dei suoi nuovi amici afferma che la vera umanità e gli autentici legami tra persone, popoli e culture non sono nati negli uffici o nei palazzi dei governatori, ma nelle isbe, nelle strade verso l’esilio, nei campi di prigionia e nelle caserme dei soldati.
L’autore va incontro alle persone concrete, consapevole che né in loro, né nei meravigliosi paesaggi che l’Armenia offre troverà una risposta alla ferita che lo fa essere attento. Scrive che il primo pensiero di chi si innamora della città di Dilizhán è che per guarire l’anima occorra solamente vivere in quel posto. Ma non è vero, perché l’inquietudine dell’anima è terribile, inestinguibile, non è possibile placarla o fuggire da essa. Di fronte a essa nulla possono i silenziosi tramonti rurali o lo sciabordio del mare eterno. Quanto più intensa è la bellezza, più si allarga la ferita, il desiderio che qualcosa accada. Scrive ancora che questa bellezza esagerata e incredibile delle montagne suscita un sentimento più grande dell’emozione, provoca un disturbo nell’anima, quasi paura, come se stesse per accadere qualcosa di improbabile, una grande trasformazione.
Grossman si confessa ateo, ma dice che i suoi libri devono essere, come le antiche chiese dell’Armenia, abitati da Dio. E il suo sguardo diventa molto acuto, si trasforma in un giudizio assolutamente pertinente su tanta religiosità ridotta a morale e dottrina quando afferma che l’uomo che crede in Dio si nota in una moltitudine di segni, non si manifesta solo nel contenuto delle parole, ma anche nell’intonazione della voce, nella costruzione delle frasi, nell’espressione dello sguardo, nell’andatura, nel modo di mangiare e bere. “I credenti si sentono”.
E lo scrittore russo non sente il credente quando ha una lunga conversazione con la più alta autorità ecclesiastica armena, che considera un mondano. Ma quando entra in un’isba povera e cena con un contadino scrive che c’è una forza speciale nelle sue parole, anche se non sono pronunciate da un sacerdote in chiesa, ma da un vecchio contadino vestito con una giacca sporca. È come se né il peso della vita, né il peso del lavoro riescano a vincere la sua forza spirituale. È come se la fede non esista al di fuori della sua vita, ma si sia trasformata nella sua lunga e difficile vita, si sia sciolta e intrecciata con il borsc che ha cucinato, con i vestiti che ha lavato, con il lavoro nei boschi. Sono parole che vengono dalla vita, e non da un sermone, parole di una vita passata in una povera isba. Sguardo di Grossman, metodo Grossman.