La politica del panico

Emerge in Europa un uso di rischi e conflitti immaginari per alimentare il proprio consenso politico. Una sorta di panico immorale sfruttato ad arte

Fortunatamente la proposta fatta da Vox in campagna elettorale, per consentire un più facile accesso alle armi per autodifesa, è stata respinta dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, e crediamo anche dal resto dei partiti. La proposta rappresenta un esempio estremo di creazione di un conflitto artificiale e del suo utilizzo per attirare l’attenzione e conquistare sostenitori. Il resto delle formazioni politiche non sono arrivate ​​- ci sono ancora grandi differenze – a una distorsione e strumentalizzazione della realtà così radicale per sfruttare una paura creata o esistente. Ma nella politica spagnola ed europea c’è una crescente tendenza a esasperare le differenze, a concentrarsi su problemi inesistenti, a non affrontare nella loro complessità quelli autentici, a fomentare le inimicizie e a silenziare i dibattiti pubblici, i punti positivi di costruzione.

La cosa peggiore è che lo stato di conflitto e di panico (im)morale, rilanciato dai media, colonizza la coscienza dei cittadini, che spesso hanno difficoltà a leggere la loro esperienza sociale, solitamente molto più ricca e più incoraggiante. Vox l’ha fatto con le armi. E, con tutte le differenze del caso, che sono molte, la Lega l’ha fatto in Italia con l’immigrazione. Lo fa anche il Psoe, quando sostiene che ha bisogno di un nuovo mandato perché il ritorno della destra al potere non metta fine al welfare che Mariano Rajoy stava per distruggere. La fa il Pp quando dice che un nuovo Governo di Sánchez significherà la fine della libertà di educazione e un accordo con gli indipendentisti che spezzerà la Spagna. La fa Ciudadanos quando promette di non scendere a patti con Sánchez, limitando così uno dei possibili governi costituzionali. Le cose in Spagna stanno così dal 1996, da quando Aznar ha ottenuto la prima maggioranza assoluta. L’ex Presidente è diventato uno dei promotori del panico morale di cui è stato vittima.

La tecnica del panico raggiunge il suo picco di immoralità quando non esiste il rischio nel nome del quale si vuole agire. È il caso delle armi. L’insicurezza è il dodicesimo problema per gli spagnoli. Solo 2 spagnoli su 100 ritengono che rappresenti una minaccia. Il 69% dichiara di sentirsi al sicuro perché vive in un Paese sicuro. In Spagna lo scorso anno sono state commesse solamente 225 rapine ogni 100.000 abitazioni

La questione dell’immigrazione non è esattamente uguale, ma presenta delle somiglianze. Uno studio pubblicato qualche giorno fa dal Pew Research Institute mostra che nei 20 paesi che in tutto il mondo hanno avuto più immigrati negli ultimi anni, la stragrande maggioranza dei cittadini pensa che l’arrivo di stranieri renda più forte la propria nazione. Curiosamente, alcuni dei paesi in questo gruppo che hanno avuto il minor numero di ingressi sono quelli che apprezzano meno gli immigrati. E in tali paesi ci sono partiti politici disposti a sfruttare il panico morale.

Né le armi personali sono necessarie per difendersi, né gli immigrati costituiscono necessariamente una minaccia, né una vittoria socialista implicherebbe la fine della Spagna costituzionale e della libertà educativa, né una vittoria del Pp metterebbe fine alle conquiste sociali. Almeno in termini netti. Le cose sono molto più complesse.

Nonostante l’assolutezza con cui si formulano alcune differenze, è possibile incontrare molte approssimazioni al di fuori del terreno ideologico, quando si affrontano problemi concreti, come, per esempio, il necessario miglioramento della produttività o dell’istruzione. L’abbiamo visto nell’ultima crisi. Si condividono domande, perplessità, la consapevolezza che un mondo è scomparso. Accanto al conflitto, evidente, ci sono confluenze (non solo nella valorizzazione del mercato e dello Stato o nell’essenziale del modello dell’autonomia) quando l’agenda la impone la vita.

Quanto più i partiti tendono a semplificare e colonizzare lo spazio pubblico con le inimicizie, più è necessario, come ha scritto nel suo ultimo libro il sociologo Victor Pérez Díaz, un maggior grado di partecipazione dei cittadini a un dibattito e a un’azione collettiva ragionevoli. Questo dibattito è formato da molteplici conversazioni che sono già in corso fuori dalle scuole, tra gli insegnanti preoccupati di fronte alle sfide della digitalizzazione, tra i piccoli imprenditori che vogliono dare maggior dimensione alle loro aziende, tra chi intuisce che non possiamo vivere insieme mettendo a tacere le domande di significato. La prima politica necessaria è potenziare queste esperienze e incoraggiare queste conversazioni senza lasciarsi impoverire dall’agenda dei partiti.

Ciò richiede, ovviamente, di superare certa pigrizia e certa inerzia. Ma non è impossibile. Una volta respinta la tendenza alla semplificazione e all’autocompiacenza (quello che è successo negli ultimi anni rappresenta un buon aiuto per farlo), se uno è accompagnato da una buona dose di realismo e stima per la libertà dell’altro e per quello che fa e vive, tendono a emergere relazioni e confluenze molto operative. Questa è la politica.

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