Sembra tutto fermo, irrimediabilmente fermo, al risultato elettorale del 4 marzo 2018. Si dice che l’elettorato italiano sia diventato estremamente mobile, che cambi opinione con una rapidità incredibile. Ma il dato reale è che la maggioranza giallo-verde continua a confermarsi vincente nell’anomalia italiana.

Si scambiano, in consultazioni regionali e nei sondaggi, i ruoli di “padrone” della maggioranza relativa tra la Lega, sempre più rampante, e il M5s, in palese difficoltà nel passare dalla fase di contestazione a quello della gestione governativa. Ma l’insieme del sistema politico italiano sembra il più paradossale e il più surreale dell’Occidente democratico, al punto da far temere per le sorti stesse e la tenuta della democrazia rappresentativa.

Niente avviene per caso. Accanto, o addirittura prima della nascita dell’anomalia marcata di questa maggioranza giallo-verde, c’è un declino economico, di produttività, di crescita, di mancanza di visione industriale che appare inquietante e che risale già al periodo precedente alla crisi finanziaria mondiale del 2008.

E in questi giorni i dati documentano ancora di più il declino. Le stime arrivano alla crescita zero (se va bene) e a un deficit che supera il 2,4 per cento, quel parametro che ha paralizzato in discussioni grottesche i rapporti tra Roma e l’Unione Europea a Bruxelles durante lo scorso autunno.

In definitiva, l’anno “bellissimo” promesso da Giuseppe Conte si riduce all’attesa quasi spasmodica di 9 settimane di “passione” (ma non come nel film Nove settimane e mezzo) per il rinnovo di questo incredibile Parlamento europeo, che sembra sull’orlo di un lento dissolvimento di funzioni di carattere legislativo e di reale rappresentanza politica. 

L’Italia va a scarto ridotto, ma in effetti non cresce più dal secondo semestre del 1992 e nello stesso tempo ha smantellato il suo apparato industriale pubblico, privatizzandolo in modo sgangherato, svendendolo spesso in modo sfacciato a vantaggio di pochi noti e di interessi internazionali che sono ancora poco chiari.

Nessuno, o quasi nessuno, ritorna mai o approfondisce questo aspetto, che appare come l’antefatto determinante del sovvertimento politico clamoroso che è avvenuto in questi anni. E quindi nessuno, di conseguenza, propone un reale ravvedimento o una strada di innovazione sulle sorti future del nostro sistema economico-industriale all’interno dell’Ue.

Incredibile leggere libretti come C’era una volta la sinistra (pubblicato dal Fatto Quotidiano, ndr) scritto da intervistatori e intervistati che sono solo spaesati improvvisatori di un riformismo mai coltivato. I vecchi “rivoluzionari” e contestatori ammettono di essersi dimenticati del popolo! Ma non sono stati d’accordo con Giavazzi e Alesina che scrivevano “Il liberismo è di sinistra”?

Di fatto, da ogni parte ci si rigiri, si nota che si aspetta e si rinvia. Dai fallimenti del centrosinistra al berlusconismo inconsistente, al cinico “bilancio da ragionieri” del governo dei tecnici e al nuovo fallimento del centrosinistra, c’è stata quasi una corsa irresponsabile verso l’inconsistenza governativa.

Altro che contrasto tra governabilità e rappresentatività che renderebbe necessaria una riforma costituzionale! Quello è un tema che in Italia è stato sfiorato malamente e si è sempre finiti a ragionare con chiacchiere al vento.

In sintesi piuttosto, dopo il bombardamento giudiziario sui partiti tradizionali del 1992, si è fatta strada l’incapacità di creare una nuova classe dirigente, in grado non solo di affrontare i problemi, ma almeno di limitare lo scivolamento non verso una destra classica, ma una destra senza identità, caratterizzata solamente da anti-politica e avventurismo.

Si dice che tutto questo avvenga in tanta parte del mondo, collegato ai fenomeni di una globalizzazione mal gestita e soprattutto non “digerita” dalle classi popolari e dal ceto medio. Ma mentre in altre parti d’Europa e del mondo si intravvedono alternative possibili o coalizioni di tenuta nel difficile periodo storico che si sta vivendo, in Italia la situazione di anomalia sembra che si stia cronicizzando, portando in definitiva a un tripartitismo, con due alfieri del “nuovismo del nulla” e  un comprimario, che sembra aver ignorato, non solo dimenticato e trascurato, ogni forma di tradizione riformista. L’unica via che potrebbe, da diverse posizioni, riproporre una strada di risanamento economico e sociale, con una partecipazione trasversale e non conflittuale per risolvere i problemi più urgenti del Paese.

Negli anni Settanta del secolo scorso, l’Italia non viveva un periodo di tranquillità. Tra il sessantottismo e il cosiddetto “protagonismo sindacale” si vedevano i sintomi di un’instabilità politica preoccupante. Poi arrivò il terrorismo, con tutte le conseguenze che sono diventate tragica storia. L’instabilità e forse anche il resto era legato a una fase storica di deindustrializzazione, di salto tecnologico, di riorganizzazione del lavoro. Il tutto fu accompagnato da due shock petroliferi, quindi da un periodo di stagflazione internazionale e per l’Italia anche da un’inflazione a due cifre.

Il Paese riuscì a superare quella fase e Milano, con la sua tradizione riformista che risaliva alla Kuliscioff, a Turati, a Caldara, a Filippetti, al sindaco del dopoguerra Greppi, adottò una politica di rinnovato riformismo nella modernità. Forse quel riformismo ambrosiano è superato dalla storia attuale, ma la strada delle riforme con una partecipazione corale e non conflittuale può essere rivista, rinnovata, riprovata, modernizzata.

Forse può essere utile ripensare a quel metodo piuttosto che “piangersi addosso” e rimanere inerti di fronte a una politica che non riesce a risolvere nulla e nemmeno a opporsi a chi nega la realtà del declino annunciato. Quello che ci si chiede è perché la sinistra, in questa fase storica, non vada neppure alla ricerca di un riformismo perduto che in Italia ha pure operato tra mille difficoltà e numerosi oppositori incoscienti. E perché non si impegni nella ricerca di un nuovo riformismo.