A sei anni dalla morte di Enzo Jannacci, il suo ricordo resta incredibilmente vivo in quelli che l’hanno amato. La sua opera rimane pienamente attuale, una boccata d’aria fresca nel sentire comune, nel contesto musicale e della grande cultura. È impressionante il numero e la qualità degli eventi a lui dedicati, delle pubblicazioni, delle citazioni in rete: da Google-alert piovono segnalazioni ogni giorno, provare per credere. Grandi artisti, come Paolo Conte, non esitano ad affermare che Enzo era il migliore. Rock star di grande popolarità come Vasco Rossi riconoscono di dovere a lui l’intuizione creativa di canzoni di successo.
Molto ci sarebbe da approfondire della musica di Enzo, originale, fatta di tonalità differenti e di ricchezza espressiva, del modo così personale e profondo di interpretare le sue canzoni. Jannacci aveva un timbro talmente inimitabile che risulta davvero difficile replicarlo.
Qui ci limitiamo a considerare i testi delle sue canzoni. Essi rivelano attenzione curiosa del particolare, profondità di sguardo a personaggi e situazioni, capacità di cogliere e raccontare, magari attraverso dettagli e impercettibili sfumature, realtà che altri non vedono. Accade che una certa espressione, un aggettivo, un colore rimangono impressi perché sono pennellate da grande artista che dicono tutto del mondo di una persona, in un istante.
Soprattutto riusciva con tre parole e tre note a delineare un personaggio, un ambiente, un’atmosfera, al punto tale da coinvolgerti come se tu fossi presente. Bastava un accenno come “Ohé! Sun chì, Vegni gio con la piena” per far scatenare un grande applauso in platea. Nelle vesti di un piccolo immigrante, con questa canzone, Enzo fa il migliore omaggio a una città come Milano, un grande “rebelot” (confusione) che gli piace.
Il vecchio musicista:
… sente che la sua angoscia è buona
perché è la sua tristezza che suona.
E come in un concerto, che piove
ma all’aperto, sorride ancora
e gli viene voglia di cantar
(“Quando un musicista ride”, 1998)
Il barbone dell’Idroscalo:
L’han trovaa, sotta a on mucc de carton,
l’hann guardaa e ‘l pareva nissùn,
l’hann tocaa, e pareva che ‘l dormiva,
lassa stà, che l’è roba de barbon
(“E ‘l portava i scarp de tennis”, 1964)
L’operaio innamorato che vuole colpire la bella collega:
Prendeva il treno per non essere da meno
(Prendeva il treno, 1964)
La sua a volte laconica ironia…
Tutta una vita a non saper che fare
Proprio al momento di andare in ferie
al mare…
(Niente domande, 2008)
I tanti, magari noi…, per cui il fitness è tutto:
Quelli che fanno una vita da malati per morire da sani
(“Quelli che…”, 1975)
Il partigiano condannato a morte che si avvia alla fucilazione:
Entra un ufficiale, mi offre da fumar
“Grazie, ma non fumo prima di mangiar”
Fa la faccia offesa, mi tocca di accettar
(“Sei minuti all’alba”, 1966)
Il modo superficiale di guardare, così diffuso in questi tempi, viene dipinto con ironia in questo modo:
l’importante è esagerare
sia nel bene che nel male
senza mai farsi capire
(“L’importante è esagerare”, 1985)
Questi e tantissimi altri fotogrammi di vita immortalati da chi si lascia colpire dalla realtà, da chi non sfugge via senza neanche uno sguardo, ma rimane con quella semplicità disarmante che fa attraversare anche il vuoto.
È uno sguardo, quello di Enzo, che si lascia colpire da cose e persone apparentemente insignificanti, venato da quella tristezza positiva di “Ho visto un re” (1968):
E sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam!
La tristezza piena di domande, in fondo, è parte di noi, al pari della carezza, così come diceva Enzo.
Riascoltare l’affresco dell’umano tracciato dalle sue canzoni può aiutare a ritornare alla profondità che permette di vedere il fascino di tutte le cose che abbiamo intorno.
Basta che ci si soffermi. Basta guardarle.