La profezia cristiana tiene insieme due tensioni: la denuncia che opprime i più deboli, un’alternativa da costruire basata sulla comunione e la cooperazione. Tertium non datur! Le prime pagine della Scrittura aggiungono una responsabilità in più, quella di “bonificare” la terra macchiata dal sangue del fratello, altrimenti i frutti non cresceranno per nessuno.
Occorre scegliere da che parte stare. La partita della vita si gioca tra due campi tra loro alternativi, quello del male e quello del bene. Nel campo del male siamo usati e poi accusati, alla fine si rimane soli e più vuoti di prima; giocando nel campo del bene si costruisce la casa comune della comunione e come frutti, direbbe sant’Ignazio di Loyola, vengono donati pace interiore e un senso profondo di libertà.
Lo ripetiamo: ciascuno deve scegliere da che parte stare. La cultura contemporanea sembra avere svuotato questa scelta del suo significato antropologico, il senso di obbligazione verso gli imperativi della coscienza, in particolare verso quelle “voci” che richiamano a scelte più impegnative e onerose in senso morale, l’obbedienza sincera al comando interiore “fa’ questo, evita quest’altro”, la responsabilità verso l’altro, soprattutto verso i più deboli che meritano lo stesso rispetto di chi ha più mezzi.
Nella storia sono le testimonianze di donne e uomini credenti (perché credibili e creduti) che ci insegnano a rialzare la testa. Il 19 marzo, per esempio, ricorderemo il sacrificio di don Giuseppe Diana, quando è stato ammazzato dai camorristi. Lo ha ricordato anche Saviano in un suo scritto: “‘Chi è don Peppino?’. ‘Sono io’ […]. L’ultima risposta. Cinque colpi che rimbombarono nelle navate, due pallottole lo colpirono al volto, le altre bucarono la testa, il collo e una mano. Avevano mirato alla faccia, i colpi l’avevano morso da vicino. Una pallottola gli aveva falciato il mazzo di chiavi agganciato ai pantaloni. Don Peppino si stava preparando a celebrare la messa. Aveva 36 anni”.
Da allora sono passati 25 anni da quel sacrificio ma l’eco della voce di don Giuseppe continua a risuonare forte nella terra campana e nella cultura italiana. “Per amore del mio popolo non tacerò” era il titolo di una lettera scritta insieme ai parroci della Forania di Casal di Principe nel Natale 1991. Le parole di Isaia sono state per don Giuseppe il richiamo a una missione radicale, priva di compromessi al ribasso e di falsi onori.
Da allora molto è cambiato, migliaia di giovani hanno rotto il silenzio, la gestione dei beni confiscati ha iniziato una nuova stagione possibile. Ma molto rimane da fare. La Chiesa opera per essere un’alternativa alle strutture di peccato di cui fanno parte le mafie. Sminare questo terreno può rilanciare una proposta alternativa di bene possibile per tutti, anche per chi ha sbagliato. Occorre però liberarsi dai coinvolgimenti pericolosi; dalla complicità, intesa come riconoscimento e approvazione di azioni oggettivamente negative, se non soggettivamente cattive; da tutte le forme di corresponsabilità illecita; dagli atteggiamenti dimissionari di chi si abitua o imputa la colpa sempre agli altri; dalla fuga nel privato di chi per pigrizia, omertà e paura separa l’ambito sociale da quello morale e di fede; dalla fuga nella strategia di chi interviene nelle strutture già compromesse compiendo interventi “umanitari e buoni”.
Lo aveva scritto anche don Giussani: “Il sacrificio più grande è dare la propria vita per opera di un Altro”. Testimoni come don Diana ci insegnano a vivere la fedeltà di una promessa che è portata al sacrificio di sé per la salvezza degli altri. Quello che la Scrittura riassume in un versetto: “Sii fedele fino alla morte, e ti darò la corona della vita”.