Le elezioni di maggio confermeranno, a meno che tutti i sondaggi sbaglino clamorosamente, che l’Europa del dopoguerra è diventata un fenomeno minoritario. Le due famiglie politiche, quella socialdemocratica e quella popolare (democristiana), che hanno ispirato la grande ricostruzione di oltre 60 anni fa e che sono state egemoniche da allora, otterranno circa 318 eurodeputati, secondo la media dei sondaggi. Il nuovo Parlamento europeo avrà 705 seggi (ce ne saranno 45 in meno per via della Brexit). Alcune delle modifiche saranno una conseguenza dell’addio dei deputati britannici, ma il cambiamento più grande sarà causato da una mancanza di fiducia nell’Europa di sempre. Il populismo di sinistra e di destra, le formazioni anti-europee ed estreme di Italia, Spagna, Germania e Francia avranno un peso considerevole, rendendo difficile il funzionamento delle istituzioni. Solo i liberali di Alde, un gruppo con ideologie molto diverse, miglioreranno i propri risultati.

Questa “perdita di essenza” all’interno delle istituzioni europee ha subito un’accelerazione a seguito della crisi economica, ma ha iniziato a verificarsi sin dai primi anni del secolo. In Germania, dopo l’unificazione e per tutti gli anni ‘90, l’egemonia di Spd e Cdu era esercitata con una somma di voti di poco sotto al 77%. Con il nuovo secolo, la percentuale è scesa drasticamente. Anche se si è ripresa dopo la seconda crisi del 2012, ora sarebbe al 45%. La destra classica e i socialisti francesi non hanno mai avuto tanto appoggio quanto i due partiti tedeschi di cui sopra, ma finiranno con la stessa percentuale. Prima della crisi, in Spagna, il Pp e il Psoe si ripartivano l’84% dei deputati europei iberici, questa volta non supereranno il 40%. In Italia la decomposizione della “Europa di sempre” è stata molto più accelerata: prima della crisi era al 70% e ora finirà sotto il 30%.

Il disgusto per i partiti che hanno difeso i valori e i riferimenti dell’Europa sorta dopo la Seconda guerra mondiale è la traduzione evidente di un fenomeno pre-politico. La reazione all’immigrazione, che in passato non aveva suscitato tanto rifiuto, tanta paura e angoscia senza fondamento, è un buon esempio. Ma, spesso, gli strumenti utilizzati per fare la “diagnosi” di ciò che accade e trovare le possibili risposte non sembrano all’altezza della sfida. Si ricorre a un’immagine statica di una “Europa tradita” nella sua eredità morale, in alcuni valori abbandonati che, in principio, erano stati conquistati una volta per tutte. Li avevamo fatti nostri per una ragione e un diritto naturale capaci di astrarre dalla storia. E si delinea così un quadro desolante in cui la parola crisi non ha alcuna connotazione positiva: l’eredità del diritto romano abbandonata, i diritti individuali e le politiche di welfare minacciati da una nuova barbarie. Il vecchio messo da parte. Forse questo lamento è la cosa meno europea che ci sia. Il miglior Remi Brague spiegava che l’Europa è la via romana e che essere romano è avere l’esperienza del vecchio come nuovo e come quello che si rinnova venendo trapiantato in un nuovo terreno. Dal suo punto di vista è romana l’esperienza dell’inizio come re-inizio: Enea abbandona Troia, saccheggiata dai greci, per fondare, non per non ripetere, in terra latina.

C’è un nuovo terreno che non può essere inteso solo come la “decomposizione” di un’eredità se vogliamo continuare a essere europei. Ci sono strumenti di interpretazione che devono essere cambiati. La questione religiosa è un buon esempio. La caduta del muro 30 anni fa la interpretiamo come il trionfo di una soluzione liberale che avrebbe privatizzato definitivamente ogni credenza sostanziale. La fine del comunismo in Europa supponeva la scomparsa sociale dell’ultima religione positiva e l’instaurazione della repubblica secolare e laica. Continuare a combattere contro questa repubblica secolare e laica, come se nulla fosse accaduto negli ultimi 20 anni, vuol dire non riconoscere la potente emergenza religiosa in Europa all’inizio del XXI secolo. I nuovi partiti che aumenteranno la loro rappresentanza al Parlamento europeo o vi faranno il loro ingresso a partire da maggio sono carichi di visioni sostanziali e teologie politiche. Il religioso, che solo nel cristianesimo è separato dal politico, è tornato con forza.

Parlare di Europa laica significa essere rimasti fuori dalla storia. Come lo è anche invocare la natura oggettiva dell’uomo, la sua identità, i suoi diritti. Oppure rivendicare un bene perfettamente condivisibile e distinguibile da tutti con una ragione che, se viene proposta, può raggiungere in modo pulito il suo obiettivo. Questo non sarà il modo di rispondere alla sfida di tutti gli “ismi” che diventeranno forti nel Parlamento europeo. Essere europei in questo momento vuol dire cominciare dal principio, da un riconoscimento nell’esperienza del bene pratico che implica lo stare insieme. Essere europei significa ritornare all’esperienza di una libertà, di alcuni diritti e di una ragione che smettano di essere dei limiti quando sono relazionali.

I valori e i diritti astratti non ci servono a restare insieme in una società plurale. Nemmeno una democrazia che sia pura procedura o burocrazia di Bruxelles. Una certa idea del bene e della verità (quella che ha alimentato la tradizione popolare e democristiana) non manterrà l’Europa in piedi. Il vecchio nel nuovo non si ricava dalla natura umana o da una concezione raffinata, ma dal bene, concreto e storico, che nasce dal riconoscersi, dall’essere in relazione gli uni con gli altri.