Il colpo c’è stato e la risposta dovrebbe arrivare. Dopo un anno, la sinistra italiana, quella che si autoproclama, forse con un po’ di presunzione, erede della sinistra del Novecento, è ritornata sulla scena con le  “primarie” per eleggere il nuovo segretario, Nicola Zingaretti. Visto che l’opposizione al governo giallo-verde era principalmente basata sul Partito democratico, sconfitto brutalmente  il 4 marzo 2018 e calato in un profondo silenzio, rotto solo da un petulante e fastidioso vociare al suo interno, si potrebbe evocare il titolo di un famoso libro di John Le Carré, Chiamata per il morto.

E quello che era definito “morto” ha risposto e promette di rispondere, almeno nelle intenzioni, a un popolo che scalpita per le occasioni perdute ed è già deluso dai nuovi dirigenti che sono entrati nella “stanza del bottoni” del governo nazionale, nei luoghi del sottopotere politico in questi anni avventurati e difficili.

Insomma, detto con molta prudenza e soprattutto senza enfasi, sembra che sia finalmente finita la stagione in cui ci si era ritirati a “mangiare pop corn”; è terminata la fastidiosa litania dell’anti-renzismo; si sono ricomposte alcune divisioni e si può ricominciare ad avere, in Parlamento e nella società italiana, un po’ di opposizione, che, è sempre utile ricordarlo, rappresenta il sale di una democrazia.

Nella scelta fra i tre candidati Nicola Zingaretti (66,5 per cento), Maurizio Martina (23 per cento) e Roberto Giachetti (13 per cento) prevale nella conta, non secondo i canoni di un congresso normale con  mozioni contrapposte e dopo un vitale dibattito, il meno renziano e il meno legato all’esperienza parlamentare e di governo, anche se collegato al possibile nuovo presidente del partito, Paolo Gentiloni, l’ultimo Presidente del Consiglio del Pd.

Ci sono in tutto questo alcuni aspetti positivi e altri che sono ricchi di dubbi. Quindi c’è il problema dei problemi: l’identità di una sinistra moderna, la nuova identità dati i contraccolpi di questi ultimi anni. E’ come se le primarie, a cui hanno partecipato un milione e 800mila persone, fossero la testimonianza della ricerca dell’identità perduta della sinistra.

Andiamo con ordine. Uno dei fatti positivi è la partecipazione massiccia, e anche insperata, alla prova delle primarie, che a nostro parere non sono un meccanismo convincente per nominare un leader, ma restano comunque un fatto di partecipazione di massa, più che mai utile in tempi di antipolitica dilagante e imperante. Unito a questo c’è quanto meno un legame storico, per certi aspetti discutibile, ma complessivamente utile all’esperienza di un partito con radici antiche, che, tra mille contraddizioni e qualche ripensamento, forse si libererà della “dannazione” della “casta”, del “populismo selvaggio” legato in qualche occasione a una democrazia diretta che ha tratti paracomici e spesso antidemocratici.

Un altro aspetto che si può considerare positivo è che una parte importante del popolo italiano, in questo continuo cambiamento di umori nazionali, ha cominciato ad avvertire sia l’inconsistenza del Movimento creato da un comico, cioè l’M5s, sia lo schematismo spesso truculento del leghismo targato Matteo Salvini.

Al momento possiamo parlare solo di segnali, ma già questi rappresentano una controtendenza importante rispetto all’euforia antipolitica di un anno fa e a nove mesi di governo che non solo non riesce a trovare la strada dello sviluppo e della crescita, ma sembra disarmato di fronte a una nuova recessione economica di carattere mondiale.

Se i dati e le analisi erano poco edificanti nell’ultimo governo di centrosinistra, ora non c’è dubbio che i nuovi dati e le  nuove analisi della società italiana (non si parla solo di quelle ufficiali e notoriamente interessate) sono ancora peggiori.

Si può dire in definitiva che quelli che sono andati in massa alle primarie del Pd, vogliono ancora che la politica abbia un ruolo decisivo nella vita di un Paese, cercando in questo modo di svegliare un partito  che si era quasi addormentato nella sua autoreferenzialità e nel suo autocompiacimento.

Si parlava anche dei dubbi rispetto all’assetto uscito dalle primarie. Zingaretti sembra il più unificante, si muove con disinvoltura andando a trovare il governatore del Piemonte, Sergio Chiamparino, e mettendo i bastoni tra le ruote, sul problema della Tav, a Lega e M5s, lanciando segnali all’ala sinistra grillina di Roberto Fico, il presidente della Camera, e forse ricevendo segnali dallo stesso Luigi Di Maio.

Ma il problema di Zingaretti è l’unificazione interna del partito, che è stato per un anno diviso, e lo stesso atteggiamento dei renziani, che hanno un peso determinante nei gruppi parlamentari e che, al momento, resta sempre un’incognita. In più, pensando alla grande e decisiva battaglia delle elezioni europee del 26 maggio, Zingaretti è costretto a pensare e magari a scegliere uno schieramento che appare problematico nel complesso del centrosinistra, tra i vecchi fuorusciti (positivi i rientri di Romano Prodi ed Enrico Letta) e le posizioni “oltre il Pd” alla Carlo Calenda, lo scrutatore non votante di queste ultime primarie.

Ma se in questo caso siamo alle manovre politiche, che si possono azzeccare con più facilità, resta alle spalle, ormai non più rinviabile, il problema della nuova identità della sinistra.

In questo caso non siamo di fronte neppure solo a un problema italiano, ma di livello mondiale e particolarmente europeo. Antonio Polito ha scritto recentemente sul Corriere tre punti dolenti, tre punti deboli del Pd e forse anche della sinistra europea: questione sociale, questione migranti, questione sicurezza.

Forse occorrerebbe aggiungere altri punti: la crescita da coniugare sempre con il rispetto dei diritti individuali; la giustizia sociale da declinare secondo lo schema del welfare conquistato con anni di lotte della sinistra; il ritorno a una valutazione corretta della funzione dello Stato nell’economia dopo la débâcle del 2008, dovuta al neoliberismo come assoluto vincitore ideologico.

E’ auspicabile che la sinistra riesca a non identificarsi nuovamente con le dottrine sponsorizzate dai Bill Clinton, dai Tony Blair, dallo stesso Gerhard Schroeder. L’impostazione liberista ha portato quasi all’estinzione della sinistra, alla liquidazione persino del keynesismo e ha promosso indirettamente il ricordo di Reagan e della signora Thatcher, quella  che sosteneva che “la società non esiste”, ma ci sono solo “uomini massimizzanti in competizione l’uno contro l’altro”.

Per lo meno, queste amenità economico-sociali, Zingaretti dovrebbe subito cancellarle e sostituirle con altre parole d’ordine più convincenti per chi soffre ancora di una crisi dovuta agli strumenti “innovativi” della “banca universale”, del “rating”, della finanziarizzazione, del metodo “McKinsey” e della grande onda dei derivati.