È l’altro braccio dell’abbraccio. Il primo a Betlemme, in una notte di veglia, di pastori: Cristo mise piede a terra, toccò terra, prese per mano la terra. Il secondo sarà a Gerusalemme, in un’altra notte, di veglia e di soldati stavolta: lì, nella confusione di una storia non più storia, il Dio cristiano stringerà il mondo in un abbraccio. Da Betlemme a Gerusalemme fu la più grande transumanza della storia. “Transumanza” è termine agreste, odore di greggi e di armenti, vacche e pecore. È anche termine ultra-evangelico: trans-humus, il passare da una terra ad un’altra. Dalla terra del sequestro – il Diavolo ci tiene in ostaggio, siamo ostaggi del Demonio – alla terra del riscatto: solo Dio potrà salvarci. Da Betlemme, terra-del-pane, a Gerusalemme, terra dove il pane si fa maiuscolo, il peccato minuscolo. Dalla grotta al sepolcro fu la transumanza di Cristo: si sporcò di vita, di amore e di passione. Le parole, quelle rimbombanti perché vuote, le cedette. Non l’appassionarono affatto.
La chiamano passione: “Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo l’evangelista Luca” (cfr Lc 22,14-23,56). Il che è un’annunciazione doppia, un raddoppio di stupore. Perché passione è termine d’elettricità, dardo infuocato: “Guarda quanta passione ci mette Francesco! La mia prof è appassionatissima! Vorrei un quinto della passione che hai tu”. Nel mondo nulla di grande, di tutto ciò che esiste, è stato fatto senza l’ingrediente della passione. Cristo stesso, a quella ciurma disperata che gli diede un po’ di credito, dettò il ritmo: “Insegui la tua passione, non la tua pensione”. Il motivo è presto detto: è solo appassionandosi che si vive, si vibra. Tutto il resto è un arrancare stanchi, mezzi sconfitti. Esagerò il Cristo, eccome esagerò: tutte le passioni sono delle esagerazioni. Sono passioni soltanto perché esagerano. Iddio esagerato, ora pro nobis.
Passione, però, è anche misurazione di sofferenza, la più alta percentuale di sopportazione possibile. E’ preludio di lacrime, affanni: “Il suo vivere è stata tutta una passione. Madonna mia, che passione! La passione di Cristo, al confronto, è stata un’escursione”. È termine derivato, consanguineo di patire, sorella gemella del patimento: ferite, referti infausti, dolori feroci, spine nel fianco. La passione, qualunque essa sia, non assaggia: divora. Cristo, il bel pastore, condusse il gregge alla transumanza più rischiosa della storia: insegnò all’uomo che passione è, anzitutto, bellezza. Non ci sarà bellezza alcuna, però, senza passione, il grado massimo di sopportazione alla quale l’uomo sarà disposto pur di afferrarla. Fece transumanza, Cristo, con l’esempio – “Preferisco morire di passione che di noia” (V. van Gogh) -, perché altri ne seguissero le orme.
Non è cieca la passione, tutt’altro: la passione è visionaria. Sono le passioni, non gli interessi, a governare il mondo. In un mondo iniquo, però, “non potete predicare la bontà e aspettarvi una sorte meno dura della crocifissione” (F. Sheen). E’ “passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca”: non ci sarà bellezza senza disperazione, l’illusione di vivere senza nessun margine di bellezza ad attorcigliarci il cuore, a stordirci l’udito, a tramutare la destinazione d’uso del nostro sguardo.
L’altra passione – quella viziata dalla voglia di non fare alcuna fatica, di mangiare a sbafo, vivere a rimorchio – è giocare coi bussolotti: è la passione di Erode che al Cristo chiedeva qualche stregoneria pur di avere salva la vita. Pur di alleggerire il fastidio di tutta un’esistenza vissuta senza coscienza: ad Erode, la grande carta-pesta, s’era addormentata la coscienza, la sua quota di santità era stata soppressa. Fu per questo che la doppia-passione del Cristo gli fu indigesta: gli ricordò – “Ecce homo!” (Gv 19,5) – chi sarebbe potuto diventare se, solo, avesse avuto un morso di coraggio per riuscire a guardare negli occhi Cristo.
Ad ogni anima di quaggiù, Cristo lascia un gallo a mo’ di sveglia: “E subito un gallo cantò” (Mt 26,74). La mia settimana santa inizia sempre con questo gallo, ogni anno più canterino dell’anno prima. Chicchirichì! è il suo modo per dirmi: “Chi non osa afferrare la spina non dovrebbe desiderare la rosa” (A. Bronte). Chicchirichì!