Paura di ciò che verrà. Paura che “il battaglione” in cui si marcia sia quello dei perdenti. Paura che il benessere scompaia. Ma non solo. Paura che i valori e i beni del mondo in cui si è nati svaniscano. Paura di perdere i tratti distintivi che ci rendono uomini. Un timore senza un presente positivo, di appartenenze deboli, che ci rende tutti bersagli dei politici che vogliono approfittare della nostra ansia. La paura ci rende conflittivi. La campagna elettorale che si svolge in Spagna ne è un buon esempio. Tutte le formazioni alimentano la paura: la destra distruggerà lo Stato sociale, la sinistra distruggerà la Spagna.

Ignacio Urquizu, sociologo socialista, era una delle grandi promesse del suo partito. Fino a pochi giorni fa, quando Sánchez, che non perdona i critici, lo ha fatto fuori. La sua esclusione dalle liste ha coinciso con la pubblicazione del suo ultimo libro, in cui fa un ritratto di quella che chiama “gente comune”, quel grande gruppo di persone che rappresenta il 40% della popolazione spagnola, composto da lavoratori qualificati, con un livello di istruzione medio-basso, e anche con redditi bassi. Questo spagnolo medio “teme di perdere molto nel futuro”, “il suo status di perdente del presente e del futuro è la caratteristica principale che definisce l’uomo medio di fronte all’incertezza del cambiamento tecnologico e della globalizzazione”. I grandi perdenti della crisi hanno messo in discussione i sistemi politici ed economici, ora la risposta è più identitaria. “Alcuni potrebbero volere che il mondo si fermi, che non avanzi e non si modernizzi, cercando inoltre rifugio nella loro comunità più vicina: un ritiro nella tribù”, dice il sociologo.

Di cosa si ha paura? Urquizu risponde dal punto di vista economico e sociale, ma indica qualcos’altro. L’uomo medio è quello che ha più paura dei robot e dell’intelligenza artificiale. Paura della globalizzazione, di perdere lavori poco qualificati, che lo Stato sociale non redistribuisca. La Spagna si è sempre mostrata come uno dei paesi più tolleranti nei confronti dell’immigrazione. L’uomo medio non teme che l’immigrato gli tolga servizi pubblici, ma che lavori per un salario più basso. Al momento non c’è una maggioranza di persone comuni tentata dalle opzioni populiste. Ma Urquizu non ha chiaro cosa può accadere in futuro.

Per anni Habermas ha insistito sul fatto che la crescita del populismo non è dovuta alla crisi dei rifugiati del 2015. L’origine, secondo il filosofo, è precedente: nella disuguaglianza che avvelena l’Europa dopo la crisi. Il report presentato dall’Ocse la scorsa settimana alle Nazioni Unite ha messo in allarme proprio sulla progressiva scomparsa della classe media, mentre aumenta il livello dei redditi alti. È l’economia, ma non solo l’economia. Il report del Pew Research Center sui populismi in Europa di qualche mese fa ha sottolineato che, insieme al fattore economico, la chiave è in una sorta di “nostalgia” per quello che è stato. Urquizu guarda nella stessa direzione citando uno studio classico di Stouffer e Suchman (del 1949), condotto nell’esercito degli Stati Uniti. La felicità di un soldato dipendeva non dalla capacità di far carriera in un battaglione, ma dalla percezione più o meno positiva del battaglione.

La felicità deriva in gran parte dall’appartenenza, dalla sicurezza a ciò a cui si appartiene. Questo è ciò che è scomparso. La reazione che cerca il rifugio nella tribù, a causa dell’insicurezza, vuole la creazione di nuove identità separate da ciò che è percepito come un caos, come una negazione di ciò che finora era stato “il nostro”.

Si teme di perdere anche la condizione di umano. Un altro studio del Pew Research Center mostra che gli americani sono seriamente preoccupati di fronte alla possibilità che i progressi della robotica, dell’intelligenza artificiale e delle innovazioni biomediche possano alterare in modo significativo le capacità umane. C’è paura del transumanesimo, degli impianti tecnologici.

Dall’economia, ai riferimenti culturali, per finire all’io. Questo è l’itinerario di una paura che spiega il rifiuto dell’Europa, la polarizzazione della vita politica e molte altre cose. Probabilmente la risposta inizia dalla fine della descrizione fatta. Da un io sufficientemente sicuro del suo carattere unico e, quindi, in grado di affrontare il cambiamento senza paura. Non disposto ad accettare la strumentalizzazione dei partiti. Questo io non nasce da appartenenze chiuse e deboli, ha bisogno di appartenenze solide (“un buon battaglione”), ha bisogno di nutrirsi di esperienze positive.