Il debutto del reddito di cittadinanza – disastroso sul piano amministrativo – è accompagnato da tentativi cervellotici di confezionargli parvenze minime di politica del lavoro. Di qui un’ultima idea, sempre targata M5s: utilizzare gli stanziamenti anche per compensare i tagli retributivi per i lavoratori dipendenti che accettassero riduzioni dell’orario di lavoro, creando artificialmente spazi occupazionali. Sullo sfondo resta l’affannoso recupero del vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti”.

Di pochissimo meno rozza, nel frattempo, è apparsa la boutade pre-elettorale del leader leghista Matteo Salvini sul possibile rilancio del servizio militare di leva. Il ballon d’essai era stato giocato – ma senza convinzione – anche dal leader Pd Matteo Renzi all’alba della campagna per le politiche 2018, con un pizzico in più di prospettiva e trasparenza: il ritorno della “leva” era immaginato come canale specifico di assegnazione del “reddito di inclusione” ai giovani disoccupati e con una profilazione più “civile” che “militare”. Un paio di suggestioni fra tante: impiegare giovani periti o ingegneri per accelerare la ricostruzione delle aree terremotate oppure per progetti di messa in sicurezza ambientale; o giovani qualificati per l’insegnamento in piani di integrazione socio-culturale dei migranti.
In via più elementare, si sarebbe potuta rimodellare in chiave “4.0” una delle finalità più antiche della leva militare italiana: l’alfabetizzazione di massa della popolazione, anche sul piano della coesione sociale. L’education digitale di base, del resto, sarebbe stato un terreno privilegiato al quale ancorare politicamente lo stesso reddito di cittadinanza. Il Rdc non sarebbe stato l’opaco sussidio “in buca delle lettere a fine mese” o – peggio – “a chi resta sul sofà”, ma un sostegno offerto a cittadini giovani e meno giovani, senza reddito e occupazione, in cambio dell’adesione a progetti formativi utili a favorire l’inserimento o il reinserimento lavorativo. Progetti flessibili, montati sul confine sussidiario fra pubblico e privato da Regioni e operatori scolastici, agenzie per il lavoro e soggetti della società civile.

Sarà una coincidenza, ma a cavallo di Pasqua sono rimbalzati dalla Svezia in Italia i nuovi segnali di successo di una misura “a costo zero” sul piano delle regole del lavoro. In Svezia un dipendente ha diritto a un’aspettativa di sei mesi per sperimentare una propria iniziativa imprenditoriale. Due soli i vincoli: non avviare un’attività concorrente e non ricoprire un ruolo “strategico” nell’organizzazione. In ogni caso: la provocazione all’Italia formato Rdc è evidente. Perché non assegnare un sussidio a chi vuol mettersi in proprio, abbia 20, 35 o 50 anni? Naturalmente dovrebbe presentare un “piano personale dettagliato”, che andrebbe valutato prima e monitorato poi: certamente non dai “navigator” immaginati da M5s. Comunque le regole del gioco sarebbero chiare e politicamente coerenti: un doppio incentivo (Rdc e sabbatico di 6-12 mesi) in cambio di una scommessa sulla propria capacità di trasformarsi in lavoratore autonomo o imprenditore capace di assumere dipendenti. Nel frattempo la ricopertura temporanea dei posti lasciati liberi potrebbe essere incentivata da formulazioni del Rdc in chiave di formazione-lavoro.

In un provvedimento del Governo battezzato “decreto crescita” quando la crescita è a zero, naturalmente, continua a non esservi traccia di riflessioni di politica industriale e del lavoro sull’utilizzo delle poche risorse in bilancio.