La Silicon Valley e la California forniscono sempre suggerimenti interessanti a chi, in Italia, è afflitto dal provincialismo di economisti, editorialisti, politici, divisi tra ordoliberismo e assistenzialismo elettoralistico. 

Partiamo da una considerazione storica che dovrebbe essere nota ma che sembra volutamente dimenticata. Come è nata la Silicon Valley? Principalmente dal convergere di tre forze, che si sono dimostrate indispensabili. La prima forza è rappresentata dal fortissimo investimento statale dovuto alle spese militari. Gli Stati Uniti concentrarono in California molte imprese produttrici di armi che attirarono scienziati e imprenditori di prim’ordine. 

La seconda forza è data dal fatto che queste persone non si limitarono a lavorare nelle imprese militari, ma ne fecero nascere altre innovative, come la Hewlett e Packard, nata nel 1939 dagli omonimi ingegneri in un garage della Stanford University. Il processo divenne inarrestabile dopo il 1969, quando in molti si rifiutarono di lavorare in imprese militari e ne fondarono altre. La terza forza è costituita da una università all’avanguardia, la Stanford University, fondata da un miliardario americano in ricordo del figlio morto in Italia in un incidente stradale. L’università, fin dall’inizio, ha supportato con la sua ricerca lo sviluppo sia delle imprese statali che di quelle private. 

Si può aggiungere un altro fattore decisivo: il fatto che lo Stato non ha aiutato solo le imprese militari pubbliche ma ha sempre sostenuto con grandi investimenti anche quelle private, così come ha finanziato la ricerca di Stanford. I soldi pubblici, in questo caso, sono stati investiti non in modo clientelare, ma secondo il criterio del loro ritorno (profiteable) legato alla validità del prodotto. E, analogamente, molti fondi privati sono stati e vengono ancora reperiti fuori dal mercato borsistico, anche a giovani imprenditori, solo in virtù della validità del loro progetto. Tutto questo ha permesso che alcune start up, che sarebbero rimaste piccole, facessero un salto di qualità e di dimensione, cosa che sarebbe stata impossibile in un ambiente non favorevole. 

È uno schema che ricorda e valorizza quanto è avvenuto nell’Italia degli anni Cinquanta, dove la nascita di grandi imprese pubbliche (Eni, Enel, SIP) e private (Fiat, Pirelli, Montecatini), insieme alla costruzione di grandi infrastrutture, ha permesso la convergenza di iniziative con capitali pubblici e privati. 

Un modello simile, che però squalificava l’intervento statale, è stato quello adottato nella tarda prima Repubblica, quando invece di sostenere imprese sane, ne venivano salvate di decotte, legate a qualche uomo politico o secondo principi che non tenevano in conto delle condizioni necessarie al loro sviluppo. Questo è avvenuto ad esempio con i grandi investimenti fatti nel Mezzogiorno, dove si sono create delle industrie, poi fallite, perché mancavano i presupposti per la loro crescita, come ad esempio, una rete di infrastrutture funzionale. 

La Silicon Valley insegna molto anche all’Europa ammalata di liberismo. Un grande sviluppo per il Vecchio continente è impossibile senza che riprenda vigore un’economia mista sostenuta da un forte intervento pubblico. Tutto il contrario di quanto è avvenuto in Italia nella seconda Repubblica dove, riuscendo addirittura a peggiorare i difetti della prima, con le scriteriate privatizzazioni e l’abbandono degli investimenti pubblici, sono state demolite grandi imprese strategiche ed è stata ostacolata, più di ogni altra cosa, la crescita di dimensioni delle piccole imprese, che non può avvenire senza scelte di politica industriale. 

Tutto il contrario anche di quanto è avvenuto nell’Unione Europea. Da quando esiste l’ossessione dell’aiuto di Stato, si ostacolano anche le fusioni capaci di sfidare il mercato globale. Accadde tutto negli anni in cui quelli che avevano dimenticato l’economia reale volevano convincere che l’investimento finanziario in derivati era il futuro.

Oggi si è ancora in tempo per seguire l’esempio californiano? Sì, se l’intervento statale fondamentale non fosse dei singoli Stati ma dell’Unione europea, che dovrebbe stanziare fondi pubblici propri, provenienti dai singoli Stati, per delle iniziative economiche strategiche. Sì, se un nuovo contratto tra Paesi europei fosse basato non solo sul debito, ma su questo sviluppo di tipo misto e se fossero sanzionati Paesi come la Germania che rifiutano di spendere il loro surplus. Sì, se si rinunciasse alle politiche assistenziali tipiche dei governi italiani, tanto simili in piccolo a quelle americane negli anni Sessanta, dove interventi federali, mirati a diminuire le disuguaglianze sociali delle grandi metropoli, si sono rivelati colossali fallimenti che non hanno diminuito la povertà e non hanno creato lavoro. Ma per tutto questo ci vuole una visione, ci vogliono uomini che guardano lontano. Chissà se le prossime elezioni europee ce ne mostreranno qualcuno.