Comizioni e concertoni, il primo maggio, si sono sempre visti. Ma uno sciopero, in un dì che è di festa, e per di più festa dei lavoratori, non s’era mai visto. Quest’anno succede, proclamato dai riders. Che sono, in italiano, i fattorini in bici o motorino che ti portano la pizza o quel che sia a domicilio, ma vuoi perché lavorano nella gig-economy, vuoi perché  il loro padrone è un’app, hanno dato anche a loro un job title: rider. Vuoi mettere la soddisfazione. Sì perché in questo mondo dell’apparenza un biglietto da visita con su scritto account manager, senior consultant, web content editor, o simili, combatte la depressione dell’impiegato e gli accresce l’autostima.

Nel mondo della realtà, questi 10mila (tanti pare che siano in Italia) sottoproletari, sgobbano per due lire e con scarse tutele, e cercano giustamente di farsi sentire. Mica facile. Giocano a loro sfavore tanti fattori. Innanzitutto una lentezza dei sindacati, soprattutto di originaria matrice comunista, e delle forze politiche a comprendere le nuove dinamiche del lavoro e intervenire positivamente. In secondo luogo anche una certa diffusa disistima o sottovalutazione della necessità del lavoro sindacale – diciamo di una “sindacalità”, magari nuova – nella difesa e promozione dei lavoratori.

Però due strumenti da usare a proprio favore i fattorini li hanno trovati: uno è lo sputtanamento e l’altro un ossimoro.

Lo sputtanamento hai riguardato via Facebook un bel po’ di vip famosi che non danno la mancia al fattorino: gli hanno tirato post in faccia, versione social del lancio di uova sessantottine sulle pellicce delle ricche milanesi ingioiellate per la prima della Scala. Ora, a sputtanare si fa peccato. Però si indovina e qualcosa si ottiene. I riders di Deliverance (Milano) hanno ottenuto pubblicità e attenzione. Ma non solo: hanno messo in luce che alla fin fine loro di questo mostro digitale impersonale che ragiona ad algoritmi sono il terminale capillare umano che incontra la clientela umana, facoltosa o meno che sia. E questo è un valore.

Veniamo all’ossimoro, figura retorica che sposa due opposti, tipo “un silenzio assordante”. O tipo: “lavoro autonomo etero-diretto”.  È esattamente questo l’ultimo grido in fatto di giurisprudenza a riguardo dei riders (tribunali di Torino e Milano): un ossimoro, perché se uno è etero-diretto non è autonomo, e viceversa. Il lavoro, codice del diritto alla mano, può essere autonomo o subordinato, tertium non datur, per la contraddizion che nol consente. Invece salta fuori un Co.co.co di terzo tipo, un lavoro che “tecnicamente” è e resta autonomo, ma che in pratica si svolge in maniera “etero-diretta” (è l’app che gli dice cosa fare) senza tuttavia sconfinare nel “potere gerarchico e disciplinare della subordinazione”.

Sembra una roba noiosa, ma è il genio italico. In questo modo infatti è possibile applicare (senza indugio e più di quanto già accade) norme di regolazione e di tutela allineate a quelle dei dipendenti in materia di orario, retribuzione, sicurezza, previdenza, orari e ferie, genitorialità, ecc.

I sindacati adesso premono perché si riprenda un tavolo romano per impostare un vero e proprio contratto nazionale di lavoro. Il vice-premier e ministro competente, Di Maio, punta di nuovo a una norma di legge: dopo aver, forse un po’ maldestramente, provato a infilarla nel provvedimento per il reddito di cittadinanza e poi fallito il tavolo negoziale con le parti, prima di Natale, dice adesso che vuole riprovarci al volo inserendola nella legge in discussione al Senato sul salario minimo. Son sempre mezze pastrugnate, ma meglio di niente. Staremo a vedere.

Nei vari commenti di questi giorni, colpisce l’affermazione di un rider milanese. Egli ha sostenuto che le aziende di delivery food tendono ad allungare i percorsi dei fattorini, anche per impedire il più possibile che essi si conoscano e solidarizzino. È proprio questo un punto decisivo di tenuta: la costruzione di una unità dal basso dei lavoratori. C’è l’esempio positivo realizzato in questi anni dai giovani e anche meno giovani sindacalisti della Felsa (per lo meno, questo conosco direttamente). Felsa è il ramo della Cisl dedicato ai lavori somministrati e atipici: furono tra i protagonisti, nel 2017, del primo sciopero alla Amazon. Avevano costruito una rete di relazioni tra lavoratori non per un’ideologia o un progetto, ma proprio come incontro tra persone. Non c’è più la catena di montaggio e l’operaio massa, in cui l’unità poteva stare in piedi in forza della medesima condizione di lavoro e dell’omogeneità di problemi e bisogni. Oggi prevale la frammentazione, fino al rischio di guerre tra i poveri perché mors tua vita mea.

L’esempio della Felsa suggerisce che l’unità oggi è possibile solo dall’incontro tra persone. Nell’incontro la persona scopre la sua dignità e così, solo così, in una compagnia, può cogliere ed amare la dignità del proprio lavoro.  Da una compagnia può nascere una rappresentanza non come apparato burocratico calato dall’alto, ma come presenza viva. Che sappia impegnarsi e in una condivisione paziente favorire il riconoscimento della dignità e dei diritti dei lavoratori. E della loro crescita professionale: i riders sono giovani, e mica possono pedalare – né sputtanare né attaccarsi agli ossimori – tutta la vita.

C’è ancora un risvolto da notare: la dimensione Europa. Le aziende del food delivery che usano riders, come Foodora, Deliveroo, Glovo, Just Eat, Ubereats, sono multinazionali che agiscono su scala come minimo europea. L’esperienza secolare di “sindacalità” che ha animato il movimento cattolico e il movimento socialista è una ricchezza della tradizione europea da non disperdere e da rinnovare.