È il tono della voce a suggerire ciò che, sovente, abita oltre le parole: “C’è dell’altro, continua a perlustrare. Spingiti oltre!”. Più inconfondibili delle impronte digitali ci sono le sfumature della voce. È la scoperta svelata nei Vangeli: che certe volte non si tratti nemmeno della voglia di parlarsi, ma che sia un cercare d’indossare la voce altrui, voce amica. Per il bambino è la voce della madre, per le pecore è la voce del pastore. Del loro bel Pastore: “Le mie pecore ascoltano la mia voce, io le conosco ed esse mi seguono”.
Avvertono il suono della voce, è torre campanaria di una presenza. Le si aggrappano addosso perché la sua non è voce qualsiasi, è voce in ascolto: “Era il tipo di voce – amerebbe scrivere F. Scott Fitzgerald – che le orecchie seguono come se ogni parola fosse un arrangiamento di note che non verrà mai più suonato”. C’è dell’erotismo nella voce di Cristo pastore: fa sgorgare sangue, fa battere il cuore, innesta la vita sin dentro gli anfratti opachi della morte. È voce-guida, la postina di una promessa. Della promessa: la più antica, quella sempre nuova: “Io do loro la vita eterna, non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”.
La voce smaschera gli intenti: “Oh, issa! Forza, andiamo: fate attenzione ai lupi!” Le parole sono le medesime, per il mercenario e per il pastore: al primo le pecore non gl’importano granché, al secondo sono cagione di vita, di morte. È il timbro della voce a fare la differenza: “Come posso dire se la tua voce è bella/ So solo che mi penetra / mi fa tremare come una foglia / mi lacera, mi dirompe” (K. Boye).
Le pecore ascoltano la voce del pastore. Inconfondibile: è voce che penetra, fa tremare, lacera, irrompe. È voce che ha attraversato la vita, dunque è carica di vita: solo chi ascolta sa ascoltare. Riesce nell’ascolto solo chi è stato capace di ascoltare, chi non è ancora saturo d’informazioni. Occorre essere allo stato brado, nudi sotto il cielo, per ascoltare. Perché “ascoltare” non è affatto un sinonimo di “sentire”: il secondo è affare delle orecchie, il primo è affare di tutto il corpo. L’ascolto viene dagli occhi: “Ascoltami con gli occhi!” implorò il bambino mentre vedeva la mamma tutta presa nel suo parlare con tutti. L’ascolto vien dal tatto: toccare il ferro è ascoltare il suo calore. Si ascolta col cuore: l’udito, senza il cuore, arriva al sentire. Tutt’al più all’accorgersi di un’urgenza: per ascoltare è necessario accordare tutti i sensi e predisporli sull’attenti. Ascoltare è esser stati ascoltati. Non c’è messaggio che valga di più che fermare qualcuno per fargli il complimento più bello: “Hai una voce bellissima!” Le tue parole sono dolci, alte, decise, morbide: hanno vita dentro. Fanno entrare la vita dentro. Parole di vita.
“Sono pecore, non hanno granché di cervello”, dirà la gente. “Però hanno pur sempre un grande cuore!” ribatterà il pastore. Si intenderanno al volo, non è pastore qualsiasi il Cristo: “Pur essendo figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8).
Imparò ad ascoltare, dunque l’ascolteranno: nessuno diverrà un bravo generale se prima non sarà stato un soldato semplice. Nessuno potrà comandare se prima non avrà imparato ad obbedire: “Ascoltano la mia voce” (cfr Gv 10,27-30). L’ascolteranno: avendo imparato ad ascoltare, si farà ascoltare. E le pecore si sentiranno così ascoltate da riuscire a confidargli confidenze d’altissima finitura: “A volte penso con la tua voce, mio Pastore!”.
È pastore strano il Cristo: sovente le ascolterà muto, parlerà loro quasi muto, sottovoce, a bassa voce. Saran giorni di grandi affanni, di enormi tentazioni: “Il pastore vi ha abbandonate!” urlerà loro il mercenario. Loro, che son pecore-amate, non daranno retta a quelle fandonie del demonio. Si avvicineranno ancor più al pastore, perché memori che quando Lui parlerà loro sottovoce sarà per un’esigenza umana: vorrà che le pecore Gli si avvicinino, un po’ di più. Qualcuna, sovente, farà orecchie da mercante: ogni gregge ha la sua pecora nera. In ogni eccezione c’è la conferma di una regola.