Nel marzo del 2020 – quando ad Assisi si terrà la tre giorni di studi su “The Economy of Francesco”, con l’intervento del Pontefice – cadranno i quarant’anni degli albori della Reaganomics: la dottrina fondante della contemporaneità più recente. L’ascesa al potere prima di Margaret Thatcher a Londra, poi di Ronald Reagan negli Usa segnò l’archiviazione brusca dei paradigmi politico-economici del dopoguerra: primo fra tutti il primato della politica (del ruolo dominante degli Stati nel produrre e distribuire le risorse) sul mercato. Una spinta talmente forte e innovativa, quella del liberismo globalizzatorio, da provocare il crollo del muro anche per l’economia pianificata del blocco sovietico e il passaggio della Cina dal maoismo rurale alla Via della Seta nell’arco di due generazioni.



Fra il 1990 e il 2015 il Pil del Dragone è aumentato di quasi 30 volte, quello mondiale è raddoppiato. La nuova Eurozona ha messo a segno un incremento superiore alla media planetaria. Eppure alla fine del secondo decennio di un secolo annunciato come magnifico e progressivo, l’economia globale soffre come forse mai. È turbolenta nelle cifre, ma soprattutto ha perso fiducia nei suoi valori. L’iperfinanziarizzazione ha mandato in pezzi già da un decennio gli equilibri globali e con essi anche i modelli di analisi e di governo del sistema economico. E gli impatti sulle istituzioni politiche nazionali e soprannazionali si sono già rivelati dirompenti: basti pensare a Brexit, all’avvento di Donald Trump negli Usa, allo scosse populiste in Europa.



Non ha quindi sorpreso – negli ultimi mesi – l’escalation del dibattito fra media, grandi centri di ricerca, forze politiche, player di mercato: soprattutto in Euramerica. Occorrono nuove sintesi, il capitalismo liberista non può essere solo “aggiustato” o “migliorato”, ma va riformato in profondità. Lo intima dal Bronx Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane deputata statunitense di sempre, teorica di una tassazione al 70% per i super- ricchi. Ma poco più in là un veterano di Wall Street, Jamie Dimon di JPMorganChase, ammette che ripensamenti e cambiamenti non possono più essere rinviati. Le grandi diseguaglianze – a cominciare da quelle che hanno spaccato lo stesso gigante americano – sono il macro-sintomo di una crisi socio-economica che spazia dalla distruzione dei risparmi a quella dei posti di lavoro, dalla violenza sull’ambiente alle povertà di tecnologia e soprattutto di education necessaria a trasformarla in reale “pari opportunità”.



Mentre le grandi accademie balbettano e le banche centrali si rimpallano le responsabilità con la politica, la voce paziente di papa Francesco ricorda che un working paper (peraltro l’unico ad aver finora accettato per intero la sfida) è sul tavolo già da quattro anni: è l’enciclica “Laudato Sì”, che propone anzitutto di ripensare l’economia dalle sue radici etimologiche (“cura della casa comune”). Non è una critica radicale all’economia di mercato, ma alle sue “disumanizzazioni”: all’idea che la finanza non serva più a muovere il risparmio verso il credito, ma che sia un monopolio oligarchico dedito alla speculazione. Oppure che – dal fisco al clima – i parametri tecnocratici si sostituiscano alla responsabilità della politica di governare la distribuzione delle risorse e la tutela a lungo termine di ciò che, nel creato, è realmente di tutti.

Anche su questo terreno il Pontefice si è mosso con uno stile peculiare: suscitando domande in tempo reale, suggerendo percorsi di riflessione comune, non imponendo dottrine e valorizzando invece le testimonianze. I frutti non mancano: la lunga intervista rilasciata alcuni mesi fa da Francesco al Il Sole 24 Ore ha provocato attenzioni visibilmente più ampie e profonde (ne ha dato conferma anche il confronto animato dall’ultimo numero da Atlantide:“Il profitto per l’uomo – Sull’economia di Papa Francesco”. Ora avverte che fra nove mesi vuol riproporre la questione del “bene comune” confrontandosi con giovani economisti e imprenditori. Sperando che nel frattempo studiosi, operatori e governanti senior comincino a scuotersi realmente di dosso vecchi giudizi e pregiudizi.