Come ha notato con puntualità Carlo Pelanda ieri su queste pagine, i rischi insiti in una possibile misura impositiva straordinaria sui patrimoni degli italiani sono elevati. E la patrimoniale “non s’ha da fare” non in nome di slogan ideologici o di interessi di parte. Essa si presenta invece come una leva di politica economica per nulla convincente in relazione all’obiettivo di accelerare la ripresa dell’intera Azienda-Italia; e non può d’altronde rappresentare un fine politico a sé.

Il precedente del 2011 – quando anche la patrimoniale era stata inizialmente contemplata nel pacchetto di austerity varato dal governo Monti – è un test troppo vicino e troppo significativo per non essere considerato oggi. Un’austerità tout court – concretizzata da misure strettamente vincolate ai parametri tecnocratici Ue sotto la pressione-spread dei mercati finanziari – non ha prodotto i risultati prefissati e sperati (in questa prospettiva appaiono condivisibili alcune analisi di Paolo Savona, spesso frettolosamente bollate come “anti-euro”). L’Italia ha visto invece accentuare negli ultimi anni la negatività dei suoi trend macro, prolungando una recessione dai pericolosi caratteri semi-depressivi. In più il sistema bancario nazionale – che aveva limitato i danni nella prima fase della crisi finanziaria globale – ha registrato ampi e gravi cedimenti, che sono andati rapidamente ad appesantire il baricentro della crisi italiana che resta fatto di Pil basso, disoccupazione alta e debole produttività industriale.

Aumentare le tasse – anzi: aggredire per via fiscale i patrimoni delle famiglie, qualunque sia la formula impositiva prescelta – non può favorire la caccia alla ripresa: che resta soprattutto ripresa di fiducia, a cominciare dagli investimenti delle imprese (nei fatti solo il deciso stimolo fiscale alla base di “Industria 4.0” ha generato risultati visibili, per nulla scontati in partenza).

L’ipotesi di patrimoniale in Italia, d’altra parte, continua a galleggiare su sabbie mobili opache nelle premesse. Pochi giorni fa il Corriere della Sera ha riservato ampio spazio al governatore della Banca d’Olanda: il quale – a nome dei paesi rigoristi della Ue – ha ripetuto che l’Italia deve compensare parte del suo debito pubblico prelevando forzosamente parte della ricchezza privata. E l’obiettivo dichiarato appare rigido: far scendere il rapporto debito/Pil sotto la soglia “di legge” del 130%, fissata dai Trattati di Maastricht 28 anni fa. Un diktat ennesimo, tuttavia chiaro nel suo profilo normativo-contabile: senza la minima attenzione per la congiuntura politico-economica complessiva dell’Eurozona e soprattutto escludendo apparentemente a priori l’alternativa di puntare a ridimensionare debito e ratio italiani puntando su una ripresa effettiva del Pil.

Ma di “patrimoniale” non si è mai stancata di parlare, ad esempio, l’ex segretario della Cgil, Susanna Camusso. Altri continuano a farlo oggi – anche in M5s – utilizzando gli stessi argomenti:  una manovra fiscale interna one-off sarebbe consigliabile in Italia per accelerare il contrasto alle diseguaglianze socio-economiche, crescenti anche nel nostro Paese. Il tema dell’impoverimento di vasti ceti medi e in generale delle “nuove povertà” è certamente una priorità per qualunque Governo italiano (così come dovrebbe esserlo per qualunque governance europea si definirà dopo il voto di domenica), Però il “teorema” che seleziona la patrimoniale come bazooka anti-diseguaglianze assumerebbe significato concreto – nel “qui e ora” della politica economica del Governo Conte – andando a finanziare il reddito di cittadinanza, che è già andato a squilibrare la manovra 2019.

Alla “patrimoniale” – al netto di ogni considerazione di praticabilità politico-sociale  –  si ricorrerebbe quindi per finalità opposte rispetto a quelle immaginate da “Europa e mercati”. E per dare corpo a  un tentativo di stimolo alla ripresa  partito male sul piano amministrativo e su cui molti osservatori sono fin dapprincipio scettici, vanificando ogni minima attesa di effetto-fiducia.