A tre giorni dal voto delle Elezioni europee 2019 emergono una serie di rischi che vale la pena di valutare, almeno per conoscerli, renderli pubblici e cercare di porvi rimedio. Questa volta, per le istituzioni di Bruxelles non si tratta di consultazioni che sono apparse spesso, nel corso degli anni, quasi di routine.

Dal lontano 1979, è la nona volta che gli europei vanno alle urne, in un contesto geopolitico però completamente mutato. I cittadini dei Paesi che votarono per la prima volta sembrano oggi, guardandosi indietro, i rappresentanti di una limitata “pattuglia”, una vera e propria avanguardia di quell’Europa che domenica dovrà eleggere il nuovo Parlamento. Anche in quei tempi lontani c’erano stati rischi da soppesare e diffidenze da superare. L’Europa immaginata da Altiero Spinelli, con la Carta di Ventotene e un imprinting socialista, era poi stata realizzata da quattro uomini politici cattolici, espressione del centro moderato europeo: Robert Schumann, Jean Monnet, Konrad Adenauaer e Alcide De Gasperi.

In alcuni Paesi, in Italia in particolare, con il mondo della “guerra fredda” era difficile trovare sponsor di sinistra al futuro dell’Unione. Ci vollero anni per far accettare una struttura istituzionale sovranazionale di derivazione occidentale nella sua radicata impalcatura democratica. Insomma, la macchina che doveva portare a Maastricht e poi all’euro si mosse tra diverse difficoltà e ci vollero ripensamenti profondi, mutamenti di equilibri politici globali, cambiamenti epocali di carattere ideologico per arrivare al traguardo dell’Unione europea.

C’è chi ha visto sin dall’inizio delle contraddizioni nell’architettura istituzionale dell’Europa, nel ruolo della stessa Banca centrale europea e anche nella natura costituzionale del Consiglio e della Commissione, dove si è notato spesso un’invasività burocratica insopportabile, soprattutto quando le decisioni si sovrapponevano alla normativa dei singoli Paesi membri, magari stabiliti per legge consuetudinaria, la cosiddetta legge non scritta che è spesso il “sale” di una democrazia.

Tuttavia l’Europa, nonostante le differenti valutazioni, aveva passato quasi indenne nella sua identità e visione futura questi momenti contrastati. Nel vertice di Milano del 1984, fu un ordine del giorno di Bettino Craxi a mettere in minoranza la posizione di Margaret Thatcher, sempre diffidente nei confronti della futura Unione. Ma gli stessi europeisti convinti mettevano sempre in guardia di fronte a un’Unione caratterizzata soprattutto dall’asse franco-tedesco, da una sorta di “nazionalismo” sottobanco che talvolta riaffiorava nelle politiche commerciali e nelle scelte di politica economica sempre più neoliberista. Quasi dimenticandosi, volutamente e polemicamente, l’impronta keynesiana che aveva caratterizzato tutto il dopoguerra, con l’espansione, con il ruolo del pubblico in economia, con il traguardo di un welfare generalizzato, soprattutto tra i Paesi fondatori, che era allo stesso tempo un distintivo e un traguardo di civiltà.

Anche dopo Maastricht e dopo le prime critiche ai cosiddetti “numeri magici” dei parametri, fissati per arrivarci “tendenzialmente”, la stragrande maggioranza degli europei, in tutti i casi, si riteneva allora con un pizzico d’orgoglio “cittadini europei”. Poi i parametri divennero, con i “patti di stabilità”, fissi e quasi inviolabili.

In una sequenza poco edificante di pochi anni, caratterizzata da un’espansione economica (che però non riguardava l’Italia e alcuni altri paesi) e da turbolenze istituzionali che stopparono una Costituzione europea già concordata, seguì poco dopo l’esplosione della crisi del 2008, passata dalla finanza all’economia reale nel giro di un anno. L’Europa, pur apparendo sempre indispensabile ai suoi cittadini di vari Paesi, è entrata da allora in una sorta di crisi d’identità.

Quella crisi, nata negli Stati Uniti per la “roulette” bancaria messa in atto dalla finanziarizzazione, ha coinvolto anche le banche europee, che avevano inseguito la logica di quelle americane, e che così hanno accumulato perdite, nel triennio 2008-2011, per ben quattro trilioni di euro. Sono state salvate dai bilanci degli Stati. C’è chi ha compreso confusamente, ma ha compreso comunque, che la spesa dello Stato era gravata da “qualche cosina”, cioè dalla spregiudicatezza del credito bancario speculativo, dal denaro creato in modo fittizio, piuttosto che dalla spesa del welfare.

Le spiegazioni quindi di vivere al di sopra delle proprie possibilità elargite dalle grandi lobbies finanziarie e bancarie hanno convinto ben pochi europei. Il dopo crisi, con la precarietà, la disoccupazione, l’impoverimento del ceto medio e le profonde diseguaglianze sociali hanno fatto il resto.

Ecco in fondo, in estrema sintesi, le ragioni di quella che è la “rivolta populista” europea. Ma, nonostante il “grande imbroglio” di banche e governi, questa risposta “populista” è antipolitica, sbagliata, e non porta da nessuna parte. Tuttavia, di fatto, ha caratterizzato questa campagna elettorale, che sembra avere un solo scopo: fare un maxi-sondaggio delle forze in campo, mantenendo magari in stand-by il Parlamento europeo e continuando a governare nei singoli paesi senza cercare di risolvere alcun problema reale.

Non a caso non c’è stato alcun dibattito tra i media italiani e gli stessi politici, che, al di là di un generico, rituale e scontato richiamo alla riforma europea, abbia voluto affrontare i veri problemi storici, economici, sociali e politici dell’Unione europea. Questo è un rischio pericoloso, che si può vedere dall’andamento dei sondaggi che sono circolati nelle scorse settimane e che ora circolano sottobanco.

Ma i rischi, come si diceva, sono diversi. Non esiste solo la “stasi” istituzionale possibile, collegata a una sorta di stagnazione economica generalizzata. Enfatizzare i risultati di Spagna, Portogallo e Grecia, dopo le tragedie del passato, e non sottolineare le difficoltà di una crescita ridotta della Germania e di una crescita zero in Italia, può diventare un altro “imbroglio” istituzionale.

È meglio evitare generalizzazioni ed enfasi inutili anche in queste ore prima del voto, perché il timore reale, il rischio drammatico, di fronte a quello che si è cercato di sintetizzare, non dovrebbe essere un ribaltamento (pare impossibile) di maggioranze a Bruxelles, oppure un equilibrio più precario, ma il rischio del non-voto, di un astensionismo di grandi dimensioni, che se rivelerebbe il lato positivo del non coinvolgimento con le posizioni del populismo, allo stesso tempo metterebbe a nudo il lato negativo del rifiuto della classe dirigente attuale, della stessa architettura istituzionale europea, dell’Unione europea. Insomma, si andrebbe incontro a una crisi di sfiducia e di identità che rimetterebbe in discussione 70 anni di lavoro politico e di ricostruzione della civiltà europea occidentale, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale.

In questo momento l’Europa non può permettersi una crisi di sfiducia di tale portata. Nel riassetto degli equilibri mondiali, Stati Uniti e Cina, magari con il terzo incomodo dell’”impero post-sovietico” di Putin, fanno il tifo per un’Europa debole, esposta alle scorribande di ogni tipo.

L’Unione europea deve fare i conti già oggi con il putiferio britannico, con il partito di Nigel Farrage, il partito delle Brexit, che pare avere la maggioranza relativa e diventare il nuovo protagonista di sua maestà britannica e dei resti del “secolo inglese”. Perché correre il rischio dell’isolamento o di giocare al ruolo di “pedina” di secondo piano delle nuove grandi potenze, sia essa la Cina comunista o siano gli Stati Uniti democratici?