Per orientarsi nell’epoca dei grandi cambiamenti sociali ed economici che stiamo attraversando, è utile mettere in fila alcuni punti fermi, anche se in modo molto sintetico. Con la globalizzazione si è assistito a una riduzione della povertà assoluta e della differenza della ricchezza tra Paesi, ma nello stesso tempo si è verificato un aumento delle diseguaglianze all’interno delle società più sviluppate. Qui, il radicale cambiamento del modello economico dovuto alla finanziarizzazione dell’economia e al rapido sviluppo tecnologico, ha determinato un allentamento delle tutele per i lavoratori, precarizzazione, se non ritorno allo sfruttamento.

Le rivoluzioni industriali a cui abbiamo assistito finora, dopo una fase di shock in cui le persone più fragili hanno pagato il prezzo più alto, hanno portato in genere dei vantaggi a tutta la popolazione, non solo a quella parte più capace di cavalcare i cambiamenti. Ma niente può essere dato per scontato, ogni volta gli scenari sono inediti e comunque un riequilibrio è avvenuto perché sono state create le condizioni istituzionali, politiche, sociali perché la nuova ricchezza prodotta si distribuisse in modo equo e secondo criteri di giustizia sociale.

Altro punto che non è inutile sottolineare: prima di poter essere redistribuita la ricchezza va prodotta. Nonostante i leggeri rimbalzi a cui abbiamo assistito anche di recente, e nonostante un 20% di imprese italiane che primeggia a livello mondiale in quanto a competitività, la nostra economia è in una situazione di ristagno almeno da un ventennio. E quindi, a maggior ragione, non sappiamo in che misura e a quali condizioni il sistema di protezione sociale (assistenza, sanità, previdenza) attraverso cui la ricchezza viene redistribuita potranno continuare a svolgere il loro determinante compito: quello di tutelare i più deboli, permettere loro di avere pari opportunità, di progredire nella scalata sociale, partecipare così all’arricchimento di tutta la società, e alla fine garantire democrazia e coesione civile.

Ed è per questa ragione che, come ha documentato in un recente incontro il professor Luigi Campiglio, nella maggior parte dei Paesi Ocse, nonostante la crisi economica, la spesa sociale è cresciuta: tra il 2010 e il 2017 del 15,7% del Pil negli Stati Uniti, del 7,7% in Giappone, del 16,5% in Svezia, del 14,9% in UK, del 13,7% in Germania, dell’8,8% in Francia. Solo in Italia la spesa sociale è diminuita dello 0,3%, dato che diventa impressionante se si considera il fatto che contiene un quasi 10% in meno per la sanità. Anche la spesa per l’istruzione (altro comparto cruciale per l’equità di un sistema) è diminuita in Italia nello stesso arco di tempo, del 15% (ed è aumentata negli altri paesi europei eccetto la Spagna e la Gran Bretagna).

Appare chiaro che la spending review attuata in questi anni per fare fronte al debito pubblico e per pagare gli interessi è andata a discapito dello stato sociale. E alla fine, anche le misure che dovevano dare un po’ di respiro alle persone in difficoltà, come gli 80 euro del Governo Renzi e il reddito di cittadinanza dell’attuale Governo non vanno nella direzione giusta. Anche il reddito di cittadinanza infatti si sta rivelando una misura di modesta entità, visti i limiti che impone (oltre al fatto di essere stato inserito, per ragioni propagandistiche, al posto del Rei, molto meglio congegnato).

Il motivo di maggiore preoccupazione per lo stato sociale del nostro Paese è però dato da un altro fattore: l’attacco che il Terzo Settore, e in generale, tutti i corpi intermedi, stanno subendo, come più volte richiamato anche su queste pagine. Innanzitutto va ricordato che, come mostrano molti studi, dare soldi a pioggia ai singoli non aumenta i consumi, né fa emergere dalla povertà, ma crea solo dipendenze assistenziali. Fermo restando che in un programma di assistenza devono essere previsti interventi per i più bisognosi, occorre comprendere tuttavia la portata dell’attacco culturale che è in atto, come ben documentato in questi giorni da Avvenire (e prima ancora da Vita).

Ciò che c’è dietro a questo attacco è la promozione di un’idea disastrosa che comporta un rapporto diretto tra persona isolata e Stato. Il problema è la disintermediazione, l’indebolimento dei legami sociali che ha isolato, indebolito e spaventato le persone. Per costruire un tessuto sociale in cui i cittadini si sentano parte attiva di una comunità, ci vogliono legami che nascono “dal basso” e politiche di sussidiarietà.