L’apertura contro l’Italia della procedura Ue d’infrazione per eccesso di debito pubblico presenta due profili distinti, anche se interconnessi nel condizionarne i possibili esiti. Il primo e principale è indubitabilmente economico-finanziario: l’Italia ha un rapporto debito/Pil strutturalmente elevato, molto superiore all’80% circa della media Ue e comunque oltre la linea rossa del 130% fissata degli accordi di Maastricht. A regole europee date, non c’è dubbio che l’Italia sia in mora: esattamente come lo è un automobilista che viene intercettato da un autovelox – magari ripetutamente – e quindi pesantemente multato dalla polizia urbana. Se un conducente non rispetta i limiti di velocità è un pericolo per tutti e mina la legalità su cui si fonda la convivenza civile sul versante della sicurezza stradale.



L’Europa è però una “convivenza” molto più complicata rispetto a una città nella quale garantire una circolazione ordinata. E nel chiamare formalmente Roma di fronte alle sue responsabilità verso la stabilità dell’Europa, la Commissione Ue non ha infatti potuto evitare di mettere in discussione l’intera architettura politico-istituzionale dell’Unione economico-finanziaria adottata nel 1991. L’Italia viene messa sotto accusa e multata sulla base di “rating” convenzionali scolpiti nella pietra quando il muro di Berlino era appena caduto e la globalizzazione finanziaria non aveva ancora disegnato le sue parabole complesse. E a recapitare il verbale – in sé una prima assoluta in 62 anni di vita dell’Unione – è stato un esecutivo Ue formalmente scaduto, pochi giorni dopo un voto democratico su scala continentale, dagli esiti politici ancora tutti da verificare proprio nel ridisegno della governance Ue.



Il provvedimento, inoltre, è stato firmato dall’ex premier di una città-Stato e paradiso fiscale interno come il Lussemburgo, forse il numero uno meno prestigioso e più discusso di sempre a Bruxelles; e da Pierre Moscovici, designato a Bruxelles nel 2014 dalla Francia a guida socialista (cioè da una forza politica scomparsa in un Paese attraversato da tensioni sociali forse superiori a quelle italiane e per questo divenuto inaffidabile in Europa perfino per il tradizionale partner tedesco). 

L’esercizio di una para-sovranità tecnocratica in un’Europa fratturata negli equilibri politici e nel gioco degli interessi nazionali appare dunque non meno problematico rispetto ai conati sovranisti di un Paese in difficoltà finanziaria come l’Italia (per non parlare di quanto già accaduto in Gran Bretagna). Proprio per questo l’esito della procedura d’infrazione contro l’Italia si profila come test di primo livello. Sembra dunque improbabile che la procedura si perfezioni come annunciata: fra qualche settimana l’Europa sarà governata da un organigramma interamente rinnovato, ancora incertissimo nella sua fisionomia e probabilmente proiettato verso una fase ri-costituente della governance Ue (dopo Roma 1957 e Maastricht 1991). A maggior ragione, in questa cornice evolutiva, è altrettanto improbabile che l’Italia possa eludere ancora un confronto straordinario sul suo debito, anzi: è in una fase come questa che un Governo politicamente credibile nelle forme e nei contenuti negoziali può ottenere risultati importanti muovendosi in modo attivo. 



Nel merito è evidente che la strada obbligata è quella di un impegno poliennale – e concordato con le diverse authority Ue – per un rientro progressivo del debito. Un Paese come l’Italia ha la possibilità di negoziarlo non alle condizioni cui sono state costrette Spagna e Grecia (Paesi che l’Italia ha invece aiutato con risorse pari a quelle degli altri Paesi-fondatori della Ue). Il mix di misure tecniche – certamente – non può fondarsi su trovate come i mini-BoT. Qualunque sia il Governo che tratterà con la “nuova Ue”,  dovrà costruire una manovra fiscale di ampio respiro in cui comporre il risanamento del debito con la priorità di ridare slancio al Pil (che è comunque il denominatore del parametro in  questione). Il resto – cioè la forza contrattuale italiana al tavolo – è politica. Ma non è solo l’Italia a rischiare di sbagliare le sue mosse: anche Francia e Germania commetteranno un errore grave – per l’Europa di cui si sentono patrone – se insisteranno a inviare a Roma contravvenzioni miliardarie firmate dai vigili urbani di Bruxelles.