A proposito della bufera che si è scatenata ai vertici della Magistratura, l’ex magistrato e presidente della Camera, Luciano Violante, in un’intervista al Corriere di ieri, ha detto due cose da tenere bene a mente. La prima: “Questa vicenda non è isolata: ci sono magistrati sotto inchiesta o in carcere a Torino, Roma, Trani, Lecce, Siracusa, Gela, Palermo”. Il che conferma le sante parole scritte duemila anni fa dall’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1 Gv 1,8). Sono trent’anni e passa che invece abbocchiamo a certe narrazioni del magistrato come vergine purissima per natura e, arcangelo per missione, combattente della guerra santa per la moralità generale intesa come granitica (e impossibile) coerenza. Come se poi non fosse un buon uomo quello che sbaglia e però ha dentro una tensione, morale appunto, a cambiare e fare del bene.

La seconda cosa sottolineata da Violante è che “emerge una concezione proprietaria della funzione giudiziaria che porta al crimine”. Cioè: commetto illecito perché la giustizia è mia e la gestisco io o, più alla Re Sole, la Justice c’est moi. Da dove può nascere questa concezione proprietaria? Verosimilmente dalla volontà di potere che non accetta limiti esterni. E nella storia italiana degli ultimi decenni nella magistratura si è via via accumulato un giacimento enorme di potere, soprattutto rispetto alla politica (esecutivo e legislativo) che di potere ne ha viceversa perso e ceduto un sacco.

Negli anni 70 alla magistratura vengono conferite speciali funzioni e prerogative in ordine alla lotta al terrorismo. Negli anni 80 si conferma l’impostazione con l’antimafia. Di fatto il potere giudiziario è come se avesse il compito di tutelare la sicurezza e l’integrità dello Stato. Negli anni 90 con la stagione di Tangentopoli si passa alla funzione anti-corruzione. La “missione” si intreccia allora ancor più con la politica, nazionale e internazionale, ed assume essa stessa una valenza politica. Basti dire che vengono spazzati via i partiti che avevano governato l’Italia sin dalla nascita della Repubblica: Dc, Psi, Psdi, Pli, Pri. Mentre con il Pci/Pds funziona un patto non scritto di reciproca convenienza. Per sfondare e tutelarsi Mani Pulite ha bisogno di una sponda politica, e l’ottiene dal partito il cui segretario Enrico Berlinguer (intervista a Scalfari, 1981) aveva posto la questione morale come centrale e dirimente la politica italiana. Le toghe volevano l’abolizione dell’immunità parlamentare e subito l’ex Pci Giorgio Napolitano caldeggiò da presidente della Camera il provvedimento, e l’Aula (1993) approvò. Il Pci per contro abbisognava di qualche indulgenza sui flussi di rubli e anche lire italiane, e le ebbe. Nel successivo bipolarismo di guerra (politico ed editoriale: Repubblica-Pd vs. Fininvest-Forza Italia) la magistratura ha giocato di fatto un ruolo non da poco contro questo secondo polo, sino alla caduta di Berlusconi, nel 2011, avvenuta grazie al combinato disposto fra bunga-bunga (caso Ruby) e spread alle stelle. L’anno dopo toccherà a Bossi mollare il timone della Lega per via giudiziaria. Nel frattempo l’operazione anti-casta lanciata dal Corriere nel 2007 aveva dato la stura a una dilagante descrizione della politica come coacervo di ladri e/o spreconi. Proprio quando scoppiava, nel 2008, la crisi. L’anno dopo nasceva il Fatto Quotidiano, considerabile organo dei giudici: il partito Repubblica-Pd non era più così necessario. A forza di “vaffa”, il comico Beppe Grillo scippò ai pronipoti di Berlinguer la fiaccola della questione morale e Giggino Di Maio si mise a scandire “onestà onestà” come programma politico che amalgama in un unico impasto moralità, legalità, giustizia e politica. Non è che fosse proprio farina del suo sacco: dietro c’è, a sua insaputa beninteso, nientemeno che il filosofo Emmanuel Kant: nasce infatti sotto l’impulso della sua filosofia una concezione di giustizia “in cui tutti i rapporti morali, giuridici e politici confluiscono nella medesima idea di legalità” (cfr. Marta Cartabia e Luciano Violante, Giustizia e Mito. Con Edipo, Antigone e Creonte).

Se questa è l’idea diffusa di legalità – e lo è – beh, al limite aridatece Antigone. Nella tragedia greca è giustamente affermata la radicale diversità fra legge dello Stato e legge morale. Questa diversità coincide, nella concezione di allora, con un conflitto insanabile perché tra due principi assoluti, e perciò finisce in tragedia (Antigone giustiziata). Bisogna imparare invece a salvare le polarità, non assolutizzandole né annullandole. E questo è lavoro di civiltà democratica. Invece negare, teoricamente o praticamente, la differenza, cioè fare dell’etica della legalità il totem assoluto della vita pubblica, è principio di totalitarismo e di prepotere (o prepotenza). Il triste spettacolo di lotte, intrighi, manovre di potere e mosse fallose può far meraviglia agli allocchi o scandalo agli ipocriti. A noi pare che mostri solo che il re – pardon, il magistrato – è nudo. Ci permettiamo di insistere: ridateci Antigone.