Nei bassifondi del mare, qualche tempo fa, hanno recuperato un naufrago con la pagella cucita nella tasca dei pantaloni. Un altro, invece, appena messo piede in zona salvezza, ha baciato il bracciale che teneva al polso: era il regalo fatto dalla madre morente alla sua partenza. Ognuno, per guadare il mare della vita, porta con sé qualcosa che gli parli in continuo di casa sua, della cose più care, di cose della memoria. A qualcuno, poi, sembra che la vita sia addirittura migliore se riesce a posarla nella memoria di qualche altro. È arnese strano la memoria – appuntava lo scrittore Primo Levi -, “può restituire, come il mare, dei brandelli, dei rottami, magari a distanza di anni”. Briciole, che sono stracci di pane, rottami di una storia che si pensava fosse andata persa. Pane sfornato in quella sera dove nessuna storia, dopo il frangersi della storia maiuscola, pareva più possibile: “Fate questo in memoria di me”. Detto così – assicura l’apostolo Paolo -, attorno ad un tavolo. Con la mestizia nel cuore, l’aspettativa nel volto.
Di Dio, oggi, ci è rimasto un pezzo d’ostia. Pane non-più-pane, il cibo per la domenica, il farmaco salvavita. Non c’è nulla che apra gli occhi della memoria come quel pane che il sacerdote alza durante la celebrazione dell’eucaristia: in quell’istante, dis-umano perché divino, il Pane restituisce la vita all’Uomo che, in carne ed ossa, non c’è più. Qualcuno, perfino, s’inginocchia: mai, prima d’ora, si era sentito che un pane pesasse così tanto da costringere l’uomo a camminare in ginocchio per portarselo a casa. Mai, prima d’allora, qualcuno s’era azzardato di farsi mangiare – ingoiare, deglutire, masticare, espellere – come il Dio amato dal popolo cristiano.
Era materia d’eccitazione, presso il popolo antico, dormire nel letto della persona che si era sconfitta in battaglia: violare quell’intimità ch’è, per sua natura, simbolo eccelso della conoscenza, significava aver disintegrato l’avversario. Dopo aver scuoiato il corpo era ridotto a brandelli pure il cuore: per un generale rappresentava l’apice della goduria, per il vinto la forma suprema dell’umiliazione. Nessuno, allora, osava pensare ci fosse dell’altro che facesse godere ancora di più. Dell’altro che, d’improvviso, una sera Cristo fornaio lasciò come promemoria agli amici: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me” (cfr 1Cor 11,23-26). D’allora al soldato semplice verrà offerta l’occasione di mangiare il corpo del suo generale d’armata. Materia d’insonnia.
A sfornare quel Pane, dopo averlo impastato di terra e miseria, son uomini che il mondo giudica sciupati, additandoli come gente perditempo. I sacerdoti, quella sera, si sono visti raddoppiare la destinazione d’uso delle loro vite sotto il naso: come primo mestiere pescatori d’uomini poi, per arrotondare lo stipendio, fornai di quel Pane che sazia a sazietà. Che, a conti fatti, è il medesimo lavoro: pescare la curiosità dell’uomo-errante facendogli assaporare la fragranza di un pezzo di quel Pane-Uomo.
Ad impastare quel Pane saranno sempre mani dalle dita luride di peccato, sfacciate di omissioni per il bene non fatto, odorose dello strame della disobbedienza. Uscito dal forno di quelle mani, quel Pane laverà le stesse mani che l’hanno impastato: è il più grande mistero della fede, maestra-supplente alle deficienze della virtù del sacerdote. Il che, “divieto di gioco”, fa di quel Pane la discriminante per i giorni futuri. Cibarsene o gettarlo mica produrrà gli stessi effetti: “Vita ai buoni, morte agli empi – è la sequenza della Solennità del Corpus Domini – nella stessa comunione ben diverso è l’esito”.
È per tutti quel Pane, non servirà a nulla spintonarsi per guadagnare posti. Ognuno arrivi col suo passo ma che, arrivando, gli aumenti la fame: quel Pane è affamato della fame di chi lo morderà. Cristo è assetato della sete dell’uomo a cui chiederà un bicchiere d’acqua: “Pane di sudore – si dice in paese – ha gran sapore”. Quel Pane è la più massiccia dichiarazione d’amore che io conosca.