Di tutto ci saremmo aspettati, tranne un raduno liturgico-conviviale di cuori solitari in cerca di anima gemella promosso dai frati. E a loro volta i frati – francescani della basilica antoniana di Padova – si aspettavano il pienone che c’è stato, sabato scorso, alla sequenza di eventi ascolto di testimonianze-messa-apericena: sei-settecento single di varia età.
Visto dalla parte di chi pensa male, l’evento potrebbe sembrare la via clericale (e come al solito) di retroguardia al business dei cuori solitari e alla sua sterminata offerta di cene, incontri, siti web, viaggi, club, speed data (che te la puoi sbrigare anche in sei minuti), algoritmi e chi più ne ha più ne metta. Però, a vederla così si fa peccato, e oltretutto non è sempre vero che si indovina.
Visto dalla parte di chi non vorrebbe avere pregiudizi, l’evento antoniano potrebbe invece essere segno di attenzione a un bisogno reale che non trova altrove, almeno per molti, soddisfazione: il bisogno di una compagnia per la vita.
In Italia, dati Istat, il 32% delle famiglie è mononucleare: tecnicamente diconsi famiglie, ma trattasi di persone sole. Chi è solo perché non ha avuto o colto l’occasione; chi magari lo è per scelta, ma sotto sotto se ne è pentito. C’è poco da fare, “maschio e femmina li creò”: per gli tutti gli altri animali trattasi di necessità stagionale di accoppiamenti a fini procreativi, per l’animale uomo trattasi di esigenza permanente di compagnia al destino.
Il percorso dell’umana scoperta del partner della vita è sempre stato scandito grosso modo da tre tappe: primo, un certo incontro non uguale a tanti altri; secondo, il rendersi conto di cosa è successo e di che prospettiva può contenere e, terzo, lo sperimentare nel tempo una crescente intima corrispondenza con l’altra persona. Dicevasi fidanzamento. Le tappe due e tre impegnano la libera decisione e vengono bene se l’individuo è aiutato da un’educazione; la tappa uno è sempre stata data per scontata. L’incontro è imprevedibile, quando arriva, arriva; è normale che arrivi.
E se non arriva, oggi ci siamo illusi di poterlo fabbricare. Tra social, chat dedicate, crociere, frequentazioni varie, party, centri commerciali, giardinetti dove si fa orinare il cane, agenzie specializzate con catalogo, e per di più una generale maggior disinvoltura di costumi, il mondo sembrerebbe una fabbrica di incontri, un Amazon che il partner te lo consegna a casa confezionato nel pluriball così ti arriva integro. Sembrerebbe, ma non è così. L’incontro accade, non si fabbrica: si fabbricano approcci, contatti, solitudini interconnesse, azzardi. E se anche accade, ma non siamo aperti, è come se non accadesse. Insicurezza esistenziale, paure, malfidenza, ritrosia ad investire tutto di sé in una storia particolare, ci interdicono l’esperienza dell’incontro. Non basta l’occasione, occorre apertura, fiducia, senso dell’altro come bene per me, desiderio di pienezza, sguardo al futuro.
E Sant’Antonio che c’entra? Be’, nella pietà popolare portoghese ha l’appellativo di casamenteiro, cioè quello che ti fa metter su casa. Nei nostri proverbi, è colui che ti fa ritrovare una cosa che hai perso. “Sant’Antoni pien de virtù, famm trovà quel che ho perdu”. Ma il detto migliore è “Sant’Antoni dalla barba bianca, famm trovà quel che me manca”. Non un santo agenzia matrimoniale, non un santo infallibile trovarobe, ma un santo che si fa un po’ carico della mia mancanza e mi aiuta nel percorso verso l’incontro con chi può colmarla. Perché l’uomo non è che gli manchi qualcosa: è strutturalmente mancanza, bisogno, attesa. E l’incontro, anche se raramente vi abbiamo fatto mente locale, l’offerta alla nostra libertà di uno spunto gratuito ma necessario della nostra realizzazione, è esso stesso una grazia.
(È per questo che il mestiere del frate si distingue nettamente da quello del mezzano di matrimoni, del pronubo e del paraninfo).