Crocevia di tutte le strade dell’Asia e uno dei luoghi a più alto rischio di scontro nucleare sul pianeta (il rischio non è scomparso), il Pakistan è un Paese difficile per i cristiani. L’assoluzione di Asia Bibi e il suo trasferimento in Canada non significano che la vita sia sostanzialmente cambiata per una minoranza composta da due-tre milioni di persone su una popolazione di quasi 200 milioni. Questo è il caso di Jonathan, un ragazzo di quindici anni che vive in un sobborgo dove si sono radunati i cristiani arrivati nelle ultime due generazioni dal Punjab alla capitale. Anche Jonathan, che trascina uno dei piedi perché vittima di un attacco terroristico, ha subito discriminazioni. “I miei compagni di classe, siccome ero cristiano, non mi lasciavano bere dalla stessa loro fonte perché erano musulmani”, mi dice senza amarezza.
Il mondo non si occupa dei problemi dei bambini di cinque anni. Lo scontro dello scorso febbraio con l’India nella zona sempre calda di confine del Kashmir, a seguito di un attacco da parte di un gruppo terroristico di matrice pakistana (Jaish e-Mohammed), ci ha ricordato che i due paesi hanno armi nucleari. L’escalation ha chiarito fino a che punto le ferite della divisione del 1947 (1,5 milioni di morti e 20 milioni di sfollati) sono ancora aperte. Niente era meglio allora per Modi, il presidente indiano, in vista delle elezioni che si sarebbero tenute nell’arco di qualche settimana, che alimentare il nazionalismo in uno scontro con il suo vicino a maggioranza musulmana. Nazionalismo musulmano e nazionalismo indù faccia a faccia per chiarire che il mondo del XXI secolo non è secolare.
Gli scontri al confine sono un buon prodotto politico e anche un buon prodotto per i media indiani quando hanno bisogno di aumentare l’audience. Nulla, d’altra parte, come l’attentato ha reso evidente che la presidenza del populista e famoso giocatore di cricket Imra Khan, che ha preso il via la scorsa estate, non ha cambiato nulla. Sebbene Khan si presentasse come un’alternativa a quelli che hanno sempre comandato, i destini del Pakistan rimangono nelle mani di un “Deep State” dominato dai militari che strumentalizzano l’islamismo radicale per i propri fini. L’alleanza instaurata tra l’esercito e l’islamismo dal generale Zia-ul-Haq negli anni ’80 è ancora molto viva. Il “Deep State” può usare il terrorismo e non combatterlo, non finire completamente i talebani se questo gli può tornare utile.
Le frontiere del Pakistan sono le stesse da dopo l’indipendenza del Bangladesh del 1971 (confina con India, Cina, Afghanistan e Iran), ma negli ultimi anni tutti i suoi vicini sono diventati più importanti. La Cina, in piena espansione imperiale, considera il Pakistan un’enclave strategica per lo sviluppo della Nuova Via della Seta e questo spiega i sostanziosi prestiti che ha fatto a un Paese che conta quasi 20 salvataggi finanziari. L’intenzione di Pechino di aumentare la propria influenza aumenta i tradizionali sospetti nazionalisti e frontalieri del suo concorrente in Asia, Nuova Delhi, che è sostenuta dagli Stati Uniti. Washington, d’altra parte, non può schierarsi radicalmente contro Islamabad perché deve porre fine alla guerra interminabile (17 anni) contro i talebani in Afghanistan. La precarietà economica del Pakistan ha portato l’Arabia Saudita a offrire generosamente le sue risorse. Riyad è lieta di aumentare la sua influenza in un Paese che confina con l’Iran, il suo tradizionale nemico con cui le tensioni, grazie a Trump, sono aumentate nelle ultime settimane.
Né l’influenza saudita, né la disputa con l’India, né il denaro cinese serviranno a ridurre l’influenza di un islamismo che si manifesta in molti modi diversi: dal terrorismo alla legge sulla blasfemia, passando per molteplici forme di discriminazione, la più importante è forse quella educativa. Il Pakistan è il secondo Paese al mondo per bambini non scolarizzati. L’istruzione in molti casi è nelle mani delle scuole islamiche che impartiscono una dottrina radicale.
In questo grande tavolo da gioco con poteri così complessi, il destino dei cristiani è apparentemente irrilevante. Molti di loro vivono nel Punjab, una delle regioni più povere. Prima della divisione del ’47 lavoravano al servizio dei Sikh, ma molti di questi decisero di andare in India e i cristiani sono quindi rimasti senza lavoro. Ora svolgono i servizi più umili. Spesso non sono autorizzati a bere dalle fonti da cui i musulmani hanno prima bevuto. Quelli che portano il fardello più pesante sono le donne: circa 700 di loro ogni anno sono costrette a convertirsi per contrarre matrimoni forzati.
Il caso di Asia Bibi ha permesso all’opinione pubblica mondiale di conoscere la legge sulla blasfemia, un regolamento modificato dal generale Zia-ul-Haq nel 1987, che permette praticamente a chiunque di accusare qualcun altro di non essere musulmano. Ma è meno noto che questo regolamento è stato utilizzato per effettuare 50 omicidi: li chiamano esecuzioni extragiudiziali. È difficile per qualcuno accusato di blasfemia avere un avvocato difensore: chi accetta il caso rischia la vita. Ed è frequente che gli imputati rimangano in prigione per anni senza processo, il cui inizio viene ritardato dalla mancanza di prove.
Nei grandi crocevia di questo XXI secolo c’è sempre un pezzo di Israele, un piccolo gruppo di cristiani, senza alcun potere, che testimonia perché vale la pena vivere, perché vale la pena morire. Jonathan è parte di loro. Un tesoro nel bel mezzo di un crocevia asiatico che non conviene sprecare.