A sorpresa, in un convegno a Washington nel 2012, a cui partecipavano grandi economisti, politici e analisti, ci fu un intervento che mandò in crisi i “vati” della dottrina neoclassica e del liberismo. Un oratore di quella riunione riuscì a dire, alzando un poco la voce, che per comprendere, in fondo solo per capire, quello che era accaduto nel 2007-2008, cioè le cause della grande crisi, sarebbero stati necessari “quattro grandi economisti del passato: Marx, Keynes, Galbraith e Minsky”.
In Italia la notizia arrivò, sfortunatamente o volutamente, tardi e molti dei nostri “grandi competenti” cercarono di assicurarsi che televisioni e giornali ignorassero quell’indicazione. C’è chi sostiene che ci fosse in previsione anche qualche “suicidio”.
Va bene Karl Marx, “un reperto storico”; si poteva tollerare anche John Maynard Keynes, “l’eretico espulso dall’Olimpo neoliberista”; un cenno era accettabile pure per Kenneth Galbraith, “giovane collaboratore del presidente Roosevelt e poi di John Fitzgerald Kennedy”. Ma Hyman Minsky, no. Non era possibile ricordarlo. Minsky era “vicinissimo” fisicamente, solo questo, ai nuovi teorici europei e soprattutto italiani. Ma lontanissimo teoricamente dal loro pensiero.
Dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, Hyman Minsky era stato chiamato a Roma da Guido Carli, quando era presidente di Confindustria. Era amico di Paolo Sylos Labini e di Paolo Savona, e insegnava anche a Bergamo, dove aveva preso casa e ci viveva per diverso tempo dell’anno.
Americano di origine russa, si presentava, come professore della Washington University di Saint Louis e docente dell’Università di Bergamo. Per questa ragione, dopo la morte, avvenuta nel 1996, Minsky fu nominato cittadino onorario di Bergamo, insignito di una medaglia d’oro e il Dipartimento di scienze economiche dell’Università di Bergamo porta ora il suo nome.
Che fare ? Esiste ormai un lungo catalogo di “libri e parole all’indice” del conformismo dilagante e del “totalitarismo” del pensiero neoliberista, tra questi: instabilità naturale del mercato, fragilità finanziaria, derivato, cartolarizzazione, Keynes, naturalmente Hyman Minsky.
Sono eresie, “bestemmie” che devono essere dimenticate, soprattutto Minsky, che ha un soprannome fastidiosissimo, “il profeta della crisi”, quello che aveva detto e scritto “Can ‘it’ happen again?” nel 1982. Riferendosi in questo modo, con quel può capitare di nuovo, a una crisi economico e finanziaria come quella del 1929.
Si dice che nel 2008 Sua Maestà la regina Elisabetta II andò in un “tempio accademico”, quello dove aveva insegnato il “catastrofico” liberista Fredrich von Hayek, la “London School of Economics and Political Science”, e abbia chiesto ai “sapienti” come mai era avvenuta una crisi del genere e perché nessuno l’avesse prevista. Si dice che tutti rimasero zitti e imbarazzati, tranne però un “impertinente” keynesiano, che disse, quasi per vendetta: “Beh… Minsky l’aveva previsto”. Quel gentleman scappò poi in canotto lungo il Tamigi.
Ma nonostante gli sforzi di smemoratezza, di austero silenzio e di di “autocensura”, la durata della crisi, la sua ampiezza devastante, riportano inevitabilmente a Minsky, che è ricomparso in questo periodo su due giornali americani, ma soprattutto è stato ricordato martedì scorso a Bergamo, nella Biblioteca “Angelo Mai” della splendida piazza Vecchia, per la ricorrenza dei cento ani della nascita.
L’iniziativa era promossa dalla Fondazione AJ. Zaninoni di cui è presidente Pia Locatelli. Al seminario ha portato un saluto anche la vedova di Minsky, Esther, una splendida ed elegante signora di oltre novanta anni, in vacanza nella sua casa di Bergamo alta.
Pia Locatelli, e altri accademici noti e amici di Minsky (solo per citarne alcuni: Marco Vitale, Piero Ferri, autore di “Minsky’s moment”, Jan Kregel, e altri ancora) si sono quasi commossi al ricordo di Hyman Minsky.
Un uomo sincero, uno studioso fuori dal “coro e dalle mode”, che inoltre amava la musica, il jazz in particolare, e l’arte. Ed era curioso di tutto e di tutti. Quello che Keynes si aspettava dai “grandi uomini”, non da quegli economisti catalogati come “odontotecnici che non sanno nulla di storia e di filosofia”.
Minsky era stato un allievo (come Sylos Labini) del grande Joseph Schumpeter. Poi si era rifatto a Keynes, non solo al grande innovatore nella “Teoria generale”, ma a quello filosofico e matematico del 1921, quando scrisse il “Trattato delle probabilità”, dove viene definita l’incertezza: non è una caratteristica indefinibile, contrapposta al rischio probabilistico, ma il caso generale di un continuum che ha i suoi estremi nella certezza assoluta e nell’incertezza totale.
Concetto troppo problematico per “noti assertori della sicurezza assoluta ”, del “mercato che alla lunga va sempre a posto” e della “facilità di prevenire le depressioni”, come sentenziavano Robert Lucas, Ben Bernanke, Alan Greenspain, per scendere fino alle nostre comparse italiane, tipo Giavazzi&Alesina, Monti&Fornero.
Minsky oggi potrebbe aprire un convegno e dire “Vi avevo avvertiti”. Il professor Marco Vitale ha ricordato quante volte, quante lettere e quante telefonate ricevute da Minsky lo avevano messo sull’avviso che “poteva accadere di nuovo”.
Ma Hyman Minsky era troppo fuori moda, soprattutto in Italia. Nel 1989, scrisse addirittura un articolo su “l’Avanti”, allora craxiano e diretto da Roberto Villetti. I suoi genitori erano stati dei russi menscevichi (socialisti riformisti) fuggiti dalla Russia e approdati a Chicago nel 1905, dopo la fallita rivolta contro lo zar. In più, in quanto menscevichi, erano attaccati e annientati dai bolscevichi di Lenin e dai comunisti di tutto il mondo. Insomma Minsky era troppo antipatico, sia a destra che a sinistra, soprattutto quando la nuova destra e la nuova sinistra si “fusero idealmente” almeno nel pensiero unico liberista.
I cardini del pensiero di Minsky si basavano su alcuni punti, che ritornano continuamente nel dibattito di oggi, anche se in parte deliberatamente soffocato. C’è in primo luogo l’incertezza, cioè l’instabilità congenita del mercato; poi la fragilità finanziaria, con la conseguente instabilità dei mercati finanziari; infine il money manager capitalism.
In parole povere, domina l’incertezza che è un dato di fondo keynesiano, unito alla fragilità finanziaria, che prevale su tutto ormai insieme all’economia reale ( non c’è più alcuna ipotetica distinzione), con un ricorso sempre più sofisticato ai prodotti meno credibili che si possono immaginare
Infine, i manager che gestiscono ricchezze enormi, all’interno dell’azionariato, non più diffuso, di un’impresa, ma concentrato tra fondi che vogliono guadagni rapidi, comprando e vendendo continuamente attività per guadagnare sulle variazioni di prezzo. L’impresa che innova, che gestisce, che arricchisce il territorio che fornisce soprattutto occupazione, che guarda a tempo lungo è spesso relegata tra i ricordi fastidiosi.
Da questa analisi, tradotta brevemente, i rimedi possibili sarebbero quello di mettere limiti alla presenza finanziaria, con riforme radicali, con tassazioni sulle transazioni che non possono ridursi solo alla famosa Tobin tax. Ci sarebbe da affrontare il problema della cartolarizzazioni, della crisi del 2008 nata per i debiti privati, con le banche che spadroneggiavano irresponsabilmente e poi si rivolgevano allo Stato, pesando sui debiti pubblici, creando grandi imbrogli per ipotetiche “spending review” che si trasformano spesso in un attacco al welfare conquistato.
Mancano ovviamente altri passaggi importanti del pensiero di Minsky, come la banca di ultima istanza, il governo di un Paese come ultima istanza per combattere la disoccupazione. Hyman Minsky, grande studioso isolato e contro le mode correnti, aveva una particolare sensibilità sociale, che univa studi diversi per si riversarli nella risoluzione dei problemi economici.
Passare come il “profeta della crisi” non è bello. Avere quasi una funzione da Cassandra non è simpatico. In realtà, come ha spiegato Piero Ferri, non si può dire che Minsky abbia previsto la crisi. La contemplava, al contrario dei “saccenti” tra le probabilità possibili visto l’andazzo disinvolto dei meccanismi finanziari ed economici.
Ma Minsky, come Keynes, aveva una laicità di fondo anche sulle ricette da scegliere, su come agire. Il fatto che in quel convegno di Washington si sia detto che bisognava rivolgersi a quei “quattro” per capire, significava che comprendere vuol dire studiare, osservare l’evoluzione continua del sistema economico e agire con coraggio e fantasia. Minsky, come ha spiegato Pia Locatelli, aveva ben appreso una grande frase di John Maynard Keynes di fronte alle svolte epocali e alle crisi. “Dobbiamo inventare una nuova saggezza per una nuova epoca. Nel frattempo, se vogliamo veramente fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, ribelli nei confronti di ciò che ci ha preceduto”.
In fondo, un simile metodo Antonio Gramsci lo chiamava: non pessimismo della ragione, ma ottimismo della volontà.