Il Capitano della storia – quello che, quando nacque a Betlemme, riempiva una greppia ma tradiva già l’impressione di riempire un giorno il mondo intero – sta facendo rotta verso la Città Santa. Finito il ciclo delle feste paesane, scatta l’ora d’emigrare altrove: “Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme”. Il generale d’armata, dopo l’apprendistato come soldato semplice svolto a Nazareth e dintorni, forza l’andatura ed entra in acque territoriali d’agitazione, “in un villaggio di samaritani”. L’uomo, quell’Uomo lì, dove passa separa: è fuoco che arde, acqua che s’abbatte, vento che spira forte: credergli o non credergli, il fatto è che rimanergli indifferente sarà impossibile.

E Lui lo sa: è per questo che ha il piglio ardito, il passo felpato, l’occhio perspicace. Appresso a Lui ci sta la ciurma amica. Che, al vedere il rifiuto dei samaritani di riceverlo, è sulla rampa di lancio della protesta. Hanno due portavoce, Giacomo e Giovanni, che sono pragmatici fin all’osso. Poiché quella gente foresta – e poco simpatica oltretutto, diciamocelo! – non ragiona assolutamente come loro, avanzano al Cristo amico un’indicazione che abbia effetti immediati, definitivi: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. A parlare, poi, sono i due per i quali la loro madre aveva chiesto a Cristo un avanzamento di carriera: la faccia tosta dei discepoli, parenti compresi, non conosce cosa sia il ritegno.

Cristo, imbufalitosi, è sull’orlo del tracollo: “Si voltò e li rimproverò”. Era in suo potere fare dell’altro, ma quella gente se l’era scelta Lui: annessi e connessi di un’amicizia. Così, voltandosi e rimproverandoli, decide d’impartire una delle sue più belle lezioni di grammatica. Spiegò loro, nel breve tempo di quel voltarsi verso loro, che un popolo comincia a corrompersi quando si corrompe la sua grammatica. Che la fortuna di una nazione, come scrive Fernando Pessoa, “dipende dallo stato della sua grammatica. Non esiste grande nazione senza proprietà di linguaggio”. I suoi amici mostrano d’avere grosse lacune in materia di aggettivi: non sanno metterli al posto giusto, sopratutto quelli qualificativi: “Gli aggettivi qualificativi – mi spiegò la maestra alle scuole elementari – indicano una qualità del nome a cui sono riferiti”. Servono a qualificare, a caratterizzare, a delineare un nome: “Cristo è un amico sincero”, dove sincerità è certificazione di qualifica dell’essere di Cristo. Una qualità, pur bellissima, non potrà mai, però, descrivere in pienezza l’intima essenza di una persona, che rimane racchiusa nel nome.

È la bellissima lezione il Cristo agli amici infuocati: “Nessuna distruzione, ragazzi: i samaritani sono uomini come noi. Gli aggettivi – sono diversi, ci sono avversi, sono duri di comprendonio – non giustificano nessun incendio doloso nei loro confronti”. Non c’è storia: quando è messo sotto torchio, Cristo offre il meglio di sé. Sul torchio della Croce, poi, l’uva diventerà vino, il grano frumento, l’odio si riciclerà in amore. I samaritani, pur chiudendo le porte, sono salvi: non verranno ustionati dal fuoco degli amici del Cristo. Che, zitti zitti, si sono sentiti spiegare dal Maestro che prima viene l’uomo e poi la fede, che il sabato è fatto per l’uomo e che l’uomo rimane tale anche se ragiona diverso. Che l’aggettivo, per non mutarsi in arroganza, faccia attenzione a posizionarsi dietro i sostantivi: “L’egoismo durerà finché la grammatica manterrà gli aggettivi possessivi” (V. Butulescu). Alle idee Cristo anteporrà per sempre l’uomo: l’ammazzeranno!

Alle porte di Samaria il mare diventa muro: “Divieto d’ingresso” hanno fatto sapere al Cristo. Che, uomo tutto d’un pezzo, reagisce andando “verso un altro villaggio”: nessun incendio, ancora cammino, polvere, sogni. E un’avvertenza a coloro che tenteranno di sistemarsi la vita col suo nome: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo (cfr Lc 9,51-62). Ne avrebbe di case-amiche, ma vuol restare libero: dunque scomodo.

È tipico dei geni non subire le leggi della grammatica ma imporre le loro.