“Ho iniziato a fare presente agli operai i prezzi di vendita di ciò che producono. Come dire: siamo tutti sulla stessa barca, qui non accumula nessuno alle tue spalle”. E’ uno dei passaggi che ricordo ancora di una lunga chiacchierata che ho fatto con Matteo Brambilla, un amico imprenditore, ormai una quindicina di anni fa. Si parlava di quanto tutto stesse cambiando in modo rapido e radicale, della concorrenza cinese che stava lasciando ferite profonde nel tessuto manifatturiero italiano, della ricerca di nicchie di mercato diventata pressante. La tecnologia stava trasformando le officine e la professionalità dei lavoratori, mentre i clienti chiedevano sempre più spesso un’ideazione condivisa dei progetti. Nello stesso tempo, il carico di adempimenti burocratici aumentava e l’accesso al credito diventava problematico per la necessità di diversificare, di intraprendere sempre strade nuove che facevano venire meno le garanzie necessarie.

L’impresa, mi diceva Matteo, sta cambiando pelle ed è “sempre più il luogo di chi gioca la sua responsabilità al massimo livello”. Punto da cui è facile cadere nella tentazione di chiudersi e restare da soli.

Sappiamo quanto questo aspetto abbia giocato poi durante la grande crisi del 2008, nel piegare la speranza, e purtroppo spesso anche la vita, di tanti imprenditori.

L’impresa del mio amico ce l’ha fatta, ha realizzato importanti acquisizioni, ha guadagnato fette di mercato, in particolare all’estero.

In quale modo? In tempi migliori aveva patrimonializzato l’azienda, formato le persone, creato un team affiatato e competitivo e soprattutto non aveva mai smesso di cercare la qualità dei prodotti, dei processi, delle relazioni con i clienti e i partner.

La storia di questa impresa dimostra che i protagonisti di un’economia avanzata non sono solo i grandi operatori finanziari. Decisivi sono anche i piccoli imprenditori. Nemmeno l’innovazione è un campo riservato solo alle grandi aziende, per quanto possano permettersi manager e personale che vi si dedicano interamente. Sono proprio le piccole imprese quelle che hanno lanciato molti dei prodotti più importanti del secolo scorso. E continuano a essere un terreno fertile per l’innovazione.

Per questo deve crescere la consapevolezza che il nostro Paese, leader nei prodotti di nicchia e nella personalizzazione del prodotto, guida una continua innovazione e diversificazione verso “prodotti notevoli”, fatta di flessibilità, uso di tecnologie complesse, predisposizione alla “contaminazione”, grazie alla presenza dei distretti e alla relazionalità.

I distretti industriali italiani continuano a essere luoghi di sperimentazione e di scambio, anche di conoscenze, competenze e di capitale umano.

Solo nel confronto con altri possono venire alla luce nuove idee e anche soluzioni per risolvere i problemi che si presentano.

La “cultura del produrre e creare” nasce nei diversi territori e “saperi” locali e, come stiamo vedendo faticosamente in questi anni, è destinata ad essere esalata dalla globalizzazione, non eliminata.

Ma occorre non perdere il percorso che le imprese più competitive hanno già tracciato. Quindi non incentrare la strategia aziendale sul taglio dei costi a scapito soprattutto dei salari e della ricerca, ma utilizzare gli utili per far crescere l’impresa, innanzitutto reinvestendoli e condividendoli con i lavoratori; incrementare i ricavi inserendo nei prodotti dosi sempre maggiori di conoscenza, puntando sulla formazione continua dei lavoratori.