Era ossessionato dall’infinito, Giacomo Leopardi: finalmente toccarlo, dopo averlo a lungo immaginato, carezzato. Seduto lassù, sul colle, per dipingere con parole da batticuore L’infinito confidò, senz’affatto negarlo, il grande cruccio, la fiamma che gli ardeva forte nel petto: che l’Infinito s’offrisse all’uomo, che gli desse la possibilità di toccarlo, portandoselo al cuore.
Una maledetta (benedetta) siepe, però, è di traverso, staziona nel mezzo: “Questa siepe che da tanta parte dell’orizzonte il guardo esclude”. È siepe-distanza, incidente di percorso, obbligo a uno sguardo limitato: “Io nel pensier mi fingo”. L’immaginazione, il figurarsi, sono ali per un poeta: ci si sporge fin oltre la carne per braccare la verità. Oltre, però, resta un’immensità che annega, nella quale “s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare”. Lassù, da Recanati con vista mare, non poteva accettare che fosse l’Infinito a fare il primo passo: a scavalcare Lui la siepe, per farsi toccare dall’uomo. L’impossibile degli uomini è il possibile di Dio.
A Betlemme, in quella prima notte cristiana, il Cielo ha svangato il terreno, ha strappato la siepe: più nessuna distanza tra il finito e l’Infinito, tra l’uomo e il suo Dio. L’uomo diventa l’universo di Dio, il tabernacolo-ambulante costruito per andare di casa in casa: a pensarci per più di due secondi il cuore stramazza. In nessuna religione si era mai osato tanto: ci si era fermati davanti alla siepe, ci si era arrestati a un passo dal possibile, si era avvezzi a farsi bastare l’immagine per mettersi in ginocchio. Che il Cielo piantasse la sua tenda proprio quaggiù, però, nessuno aveva osato immaginarlo: troppo, quel troppo che storpia.
Invece avvenne, avviene ogni qual volta il prete alza al Cielo l’ostia divenuta la carne di Dio: l’Infinito è tra le sue mani, pronto per farsi toccare, masticare, bestemmiare. Bellezza inaudita, inaspettata, fuori-misura: “Rallegrati grandemente – è di san Giovanni della Croce quest’intuizione pazzesca – sapendo che tutto il tuo bene e l’intera tua speranza è così vicina a te da abitare dentro di te”. Sotto-casa.
Mistero così grande che nemmeno un intuito poeta riesce a delimitare, un raddoppio di gratuità che solo il Cielo riesce a dispensare: “Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi – scandì, senza far sfoggio di filosofia, il Rabbì di Nazareth –. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre vi manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa, e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto”. Lo Spirito è pro-memoria di una siepe che ora non c’è più, è la rievocazione di una distanza annullata, è previsione d’una pioggia che arriverà copiosa a bagnare le lacrime riarse per troppo vaneggiare. Nessun intrigo nascosto dentro quel soffio divino, il movente è tutto chiaro: lo manda “perché rimanga con voi per sempre, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (cfr Gv 14,15-26).
“Rimanere” è complemento di compagnia cucita addosso: più nessuno vivrà da solo in casa sua. “Insegnare”, poi, è verbo d’accensione, è più voto di vastità che di castità: addestrarsi ad adocchiare l’infinito nel finito, il Regno nel lievito, Dio nell’uomo. “Ricordare” è affare della cardiologia: ricondurre al cuore, ridare casa ai pensieri sparpagliati, prendere per mano i timori girovaghi. Quant’è aguzzo l’ingegno di Dio: s’alza in volo per ficcarsi meglio dentro la terra, tra noi. Nascosto in quello Spirito concepito apposta per rimanere ad insegnarci come si fa a ricordare. A ricordare l’annuncio più ambizioso, persino paradossale: “Dio ha tolto la siepe, ti cerca: fatti trovare, ti ritroverai”. L’orizzonte non è più escluso dallo sguardo.
C’è una crepa in ogni cosa: è così che entra “un raggio della sua luce”. È invasione di luce, senza quell’irruzione “nulla è nell’uomo, nulla è senza colpa”. Da lassù, ch’è esattamente nelle profondità di quaggiù, “mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei”. Per costruir casa tra noi, il Cielo ha tolto la siepe. E il naufragare s’è fatto d’amore nel pane di quell’Ostia.