Oggi sapremo fin dove arriverà l’ostinazione dei socialisti nel Parlamento europeo per bloccare la nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea. Per il momento usano l’argomento che non era uno dei cosiddetti spitzenkandidaten (i candidati presentati alle elezioni dai partiti). Nell’Europarlamento ha sollevato logicamente rabbia il fatto che il Consiglio europeo di alcuni giorni fa non abbia rispettato il sistema utilizzato cinque anni fa. Allora, il Consiglio aveva tenuto conto del fatto che Juncker era il rappresentante della lista più votata. Ma forse è precipitoso descrivere ciò che accade come l’ennesima crisi causata dal “deficit democratico” delle istituzioni europee che voltano le spalle ai cittadini.
L’iniziale alleanza tra socialisti e liberali, sostenuta fino a un certo punto da Macron, aveva sì tenuto conto degli spitzenkandidaten proponendo Timmermans come Presidente della Commissione. Ma ciò implicava non rispettare quanto deciso dagli elettori. Significava nominare un socialista come Presidente della Commissione quando non erano stati i socialisti a prendere più voti. Il fatto che non si sia rispettato il sistema degli spitzenkandidaten non significa che il patto tra i capi di Stato e di Governo sia contrario a quello che hanno votato gli elettori europei. L’accordo rispetta il risultato delle elezioni più di quanto non intendessero fare i socialisti. Forse è questa la ragione, insieme al suo pragmatismo, che ha portato Macron ad “adeguarsi” chiedendo però di mettere a capo della Banca centrale europea la francese Lagarde. Sarà lei a decidere sulle questioni più importanti.
In ogni caso, siamo di fronte a una tempesta in un bicchiere d’acqua. Ci sono due questioni molto più decisive. Dal punto di vista istituzionale, la cosa rilevante è che il governo dell’euro non fa passi avanti. Dal punto di vista culturale, la cosa essenziale è che non stiamo ancora superando la crisi a lungo termine causata dall’arrivo dei rifugiati nel 2015.
Fortunatamente, il risultato delle elezioni europee non ha dato il colpo di grazia finale ai partiti tradizionali a favore dei sovranisti. E questa è stata una notizia importantissima. Ma il discorso di queste formazioni persiste senza avere una risposta sul terreno antropologico. La crisi dei rifugiati è servita perché in modo popolare molti europei affermassero, senza grandi discorsi filosofici, ciò che alcuni intellettuali hanno sottolineato da tempo: la fine del progetto illuminista che ha sognato l’universalizzazione della libertà e della democrazia. L’Europa ha creduto per molto tempo che i diritti umani e la democrazia liberale dovessero governare in tutto il mondo. Dopo quanto accaduto nel 2015, come sottolinea Krastev, “gli europei non difendono più la democrazia oltre i confini europei”, “il progetto europeo non è più sinonimo di universalismo liberale”.
Una delle ragioni di questo crollo pratico dell’edificio illuminista ha a che fare con la vertigine che implica il fatto di riconoscere che la libertà senza uguaglianza è lettera morta. La disuguaglianza che è sempre esistita, con la crisi del 2015 è diventata concreta e si è trasformata in una minaccia. “Come si può continuare a sostenere l’universalità dei diritti umani quando ci sono così tante disuguaglianze?”, si chiedono molti per i quali l’universalità del genere umano è diventata un’astrazione. L’universalità dei diritti può essere predicata più facilmente quando c’è una classe media come quella emersa nel dopoguerra europeo. Ma quando le differenze di reddito, libertà o sicurezza sono così abissali come quelle che separano l’Europa dal Nord Africa o dal Medio Oriente, crolla l’ingenuità liberale che crede nel progresso, in un lieto fine della storia che ci avrebbe portato, grazie alla globalizzazione, in paradiso. La globalizzazione, contrariamente a quanto pensavano i liberali ottimisti degli anni ’90, non è stata un veicolo per l’universalizzazione. La globalizzazione è un processo economico, tecnico, militare, non culturale, che di fatto ha portato all’affermazione dei più diversi localismi. L’universalizzazione dei mercati in molti casi finisce perché è violenta.
Gli europei, come tutti gli occidentali, hanno paura di perdere quello che hanno. La paura è suscitata dal fatto che l’edificio europeo è rimasto privo del terreno dell’universalismo liberale. Negli ultimi quattro anni è diventata più evidente che negli ultimi due secoli l’insufficienza di un universalismo giuridico che non entra nelle esperienze su cui si fonda.
Gli europei hanno ragione di affermare ancora il valore universale della libertà e dei diritti umani? Non conviene affrettarsi a rispondere alla domanda. Ciò che è chiaro è che una risposta astratta non serve. Come sottolinea Botturi, la nuova situazione richiede una profonda revisione antropologica, che il pensiero contemporaneo ha rigettato da qualche tempo. Il recupero di questa universalità non può essere fatto seguendo la formula di Westfalia, privatizzando le ragioni che sostengono la vita di ciascuno. La soluzione non può venire dall’alto. Di fatto saremo in grado di affermare che i diritti umani e la libertà sono per tutti solamente se saremo capaci di creare una costruzione narrativa e relazionale della nostra identità. Abbiamo bisogno di un dialogo in cui l’altro sia riconosciuto e mi riconosca in una relazione che mostri ciò che c’è di comune e di diverso nelle nostre esperienze elementari. La libertà, in un mondo di disuguaglianze e senza le vecchie certezze, non può essere affermata in modo astratto, ma riconoscendola come desiderio condiviso.