Il commissario del servizio segreto militare mi spiega con grande enfasi che nell’Islam non è permesso che un uomo esponga la parte del corpo compresa tra l’ombelico e le ginocchia. Lo fa sollevandomi la maglietta e toccandomi le gambe. Il chierico della madrasa (scuola coranica) in cui si svolge la scena guarda il militare con soddisfazione. La madrasa in cui abbiamo registrato fino a pochi minuti fa è una di quelle storiche di Lahore, la capitale del Punjab. Nelle sue aule, seduti sul pavimento, con movimenti ritmici e urlando, i bambini imparano a memoria le sure del Corano.
L’interrogatorio del commissario, che in seguito ci costringerà a lasciare frettolosamente il Pakistan, dimostra chi comanda nel Paese. Non importa se il primo ministro proviene da un partito musulmano o se è un playboy populista. Chi governa i destini di questa nazione con oltre 200 milioni di abitanti, crocevia dell’Asia, è l’alleanza tra l’islamismo e l’esercito che le ha dato la sua identità. Il commissario deve dimostrare al religioso che impone la più severa interpretazione dell’Islam e il chierico dà il suo sostegno al militare.
Fino a non molto tempo fa, era comune a Lahore, città al confine con l’India, che gli uomini passeggiassero in pantaloncini e ciabatte nei loro parchi. L’avanzata del partito radicale Tehreek–e–Labbaik ha cambiato le abitudini. Islamismo sull’islamismo, su quello di Ali Bhutto degli anni ’70, su quello del generale Zia-ul-Haq degli anni ’80, su quello che gli Stati Uniti hanno esortato a combattere i talebani in Afghanistan.
Mentre ascolto la predica del commissario, mi viene in mente il volto di Sadaf, una ragazza di 12 anni che poche ore prima mi ha raccontato la sua storia. Sadaf indossa un velo, veste come una musulmana o una indù. Molti cristiani del Punjab non si distinguono per il loro abbigliamento. Sono il ritratto vivente di ciò che diceva la lettera a Diogneto.
Sadaf ha un volto severo e un’espressione timida, ma presto viene fuori il suo carattere. Mi spiega che una compagna di classe l’ha invitata lo scorso aprile a passare un pomeriggio con lei. Dopo aver resistito per un po’ ha accettato l’invito. Che in realtà era una trappola per far sì che il fratello della sua compagna, Sabtain, la rapisse. Sadaf è stata drogata, portata a Faisalabad e Sabtain ha abusato di lei. Sadaf racconta tutto con aplomb, senza abbassare lo sguardo. Dopo la violenza sessuale, ha ricevuto una serie rapida di nozioni sull’Islam ed è stata costretta a convertirsi. A questa conversione forzata è seguito un matrimonio forzato con un falso espediente. Sadaf non voleva essere musulmana e non voleva essere un possesso di Sabtain. Così, in un nuovo trasferimento, ha avuto il coraggio di saltare giù dal bus su cui viaggiava. È fuggita e ha chiesto un cellulare a una persona sconosciuta. È riuscita a chiamare suo padre che è andato di corsa a prenderla. Ora è tornata nella sua famiglia. Sadaf, che non ha più l’aspetto di una bambina, mi spiega che non voleva smettere di essere cristiana.
Ogni anno ci sono circa 700 conversioni forzate all’Islam in Pakistan. La cifra potrebbe essere più alta perché ci sono casi di cui non si ha notizia. Le conversioni e i matrimoni forzati fanno parte di un abuso sessuale che, nella stragrande maggioranza dei casi, prosegue per tutto il resto della vita. In alcuni casi sono gli insegnanti che, nelle scuole, agiscono come complici. Ci sono volte in cui il rapimento e la conversione vengono usati per la tratta, e quindi le donne cristiane finiscono nel giro della prostituzione. Colpisce il fatto che molti musulmani, che conservano la vecchia cultura bramina, non vogliono bere dalle fontane da cui si dissetano i cristiani, né mangiare nei loro piatti, ma non considerano impuro violentare le loro donne.
Sadaf ha avuto un grande coraggio, una grande chiarezza su ciò che voleva e un posto dove tornare. Ma spesso non è così. Quando avviene un rapimento, è necessario agire immediatamente: se il salvataggio non è immediato, la situazione diventa formalizzata. Non è sempre facile che la vittima, che si sente in colpa per quello che è successo, faccia un passo avanti per riconquistare la libertà.
Il commissario mi ripete le regole sull’abbigliamento e io penso agli occhi di Sadaf, la bambina che non è più bambina, che ha voluto rimanere cristiana e ha voluto continuare a essere libera. E penso alle migliaia di donne che nei villaggi del Punjab sono state costrette ad abbandonare la loro fede per diventare l’oggetto del capriccio di uomini educati in un islamismo nocivo. E il male subìto da queste ragazze e donne mi appare come una grande ondata di sporcizia, come un grande genocidio sessuale. E resto in attesa del #Me Too dell’Islam.