La strada, che circonda interi edifici stretti tra loro e prende la forma di vicoli o che vasta e sinuosa ritaglia casermoni di cemento in periferie senza orizzonti, è tuttora il più importante agente formativo collettivo a cui si rivolgono troppe famiglie del Mezzogiorno. Lo Stato, in quelle strade, non ha corpo né senso. È un’entità astratta che si materializza in forma di punizione in divisa o di adempimento noioso di un obbligo, fino alla “liberazione” dei sedici anni. 

Chi si sottrae del tutto al “fastidio” è minoranza, seppur numerosa ed inaccettabile, ma molto più consistente è la platea dei parcheggiati, ragazzi senza visione (propria o familiare) costretti dal sistema della frequenza a far da sfondo a palestre ed aule in cui si aggirano coraggiosi docenti o sfiduciati stipendiati. Il sistema, come dice l’indicatore dei test Invalsi, è sempre più spaccato tra il Nord ed il Mezzogiorno.

A cosa serva la strada, nell’educazione nel Mezzogiorno e quanto sia importante, lo testimonia la vulgata che vuole le persone capaci, poco avvezze ai libri, invocare l’università del marciapiede come titolo di merito e l’essersi “fatto in strada” come sicura medaglia e garanzia di competenza. 

La lotta all’abbandono scolastico e il sistema educativo universalistico hanno abbondantemente perso la loro sfida in quei territori. Aumentano gli ignoranti disfunzionali e la scrittura sopravvive solo grazie al T9, che corregge doppie e ortografia ma che tradisce quando le forme verbali iniziano per acca. 

E la tecnologia non fa altro che impigrire gli svogliati e distrarre i frequentanti senza costrutto, ma non riesce a dare un posto nella società a chi non ha strumenti e conoscenze. Soprattutto nel Mezzogiorno aumenta una diffusa ritrosia alla scuola ed alla formazione, poiché esse da sole non riescono più ad emancipare e creare autonomia economica alla fine del ciclo, una sorta di rigetto culturale, un riflusso che prende intere aree e che viene dall’idea che in fondo se sei “uno buono” il marciapiede ti darà di più di quanto possa un diploma, che addominali e silicone ben postati sui social aprono più porte di una buona conoscenza dell’inglese. E così torme di ragionieri, geometri o liceali senza altro che il titolo di carta non hanno manco più l’orgoglio di essere diplomati (di cui andava fiero il buon Pino Daniele). Oggi avere “un figlio che studia” non è percepito più, in sostanza,  in larghe parti del Mezzogiorno come un progetto per una vita migliore per lui.  

Se questo è quanto emerge dai dati di abbandono scolastico, dai dati Invalsi, dalla diretta percezione di tanti operatori appare ancora più evidente come la stessa idea che la scuola diventi “affare di territorio” e non emergenza del Paese sia del tutto devastante. È un po’ come dire che se fino a ieri sei stato in una situazione disastrosa, in fondo ti sei abituato. Confinare nelle risorse storiche le scuole del Mezzogiorno e inserire nelle autonomie regionali questo capitolo significa perdere la stessa identità di nazione. E se è vero che ieri il premier Conte al tavolo di governo dove si discute di autonomia differenziata ha sostenuto questi argomenti, allora bisogna riconoscergli che ha fatto una cosa giusta.

E senza una visione puramente e autenticamente egoistica del Paese non si comprende quanto sia utile una scuola forte e dei cittadini formati, quanto sia utile per la società tutta avere alti livelli di competenze e quindi alti livelli di reddito e quanto il reddito del singolo incida sui consumi e quindi sul benessere generale di un Paese. 

Se la nostra è una nazione, non può che nel suo interesse aprirsi all’idea di aggredire il tema della scuola, scuotersi dalla visione delle mance e degli sconti fiscali e dare impulso ad un grande investimento (quello si anche in deficit) che  aumenti le risorse anno per anno in modo da avere  più di ore di educazione nelle scuole, più docenti con stipendi più alti, portando fino ai 18 anni l’obbligo  scolastico. Un patto per il futuro che prenda le risorse  di tutto il Paese nell’interesse di tutto il Paese. Una scuola che mandi in soffitta la strada, che sia perno delle politiche del Paese e non strumento di divisione, e non perché tutti si debba studiare il Manzoni, ma perché tutti abbiano l’occasione di diventare un Manzoni.