L’Eurispes ha reso noti nei giorni scorsi i risultati di una ricerca commissionata dal Filocolo, associazione culturale che si occupa di amore tra i più giovani. La pubblicazione ha un titolo di per sé già emblematico: Soprattutto io. Coppie millennials tra stereotipi, nuovi valori e libertà. L’obiettivo è quello di rappresentare le opinioni di tutti coloro che sono nati tra il 1984 e il 2000 in merito ad alcune consolidate prospettive e consuetudini sociali in materia affettiva.

Si scopre così che l’80% dei giovani ha come desiderio quello di costruire una vita di coppia, qualunque forma essa possa assumere, ma che il 67% degli stessi giovani ritiene la relazione affettiva appagante a prescindere dalla presenza o meno dei figli.

I dati vanno oltre e raccontano che il 74% delle donne non ritiene giusto rinunciare alla propria carriera per i figli, che l’idea di avere più di venti partners nella vita è accettabile da più del 50% degli intervistati e che la stabilità di una relazione non dipenda – secondo gli stessi interpellati – dalla differenza di età fra i partners. Infine, dato anche questo abbastanza scontato, per la stragrande maggioranza dei ragazzi il divorzio, l’aborto e le unioni civili sono conquiste definitive, imprescindibili per la vita affettiva del nostro tempo.

Davanti a questa ricerca si possono tenere due atteggiamenti: commentarla, cercando di comprendere le tendenze che emergono nel tessuto culturale del nostro paese e le prospettive che si possono concretizzare in un futuro molto prossimo, oppure ricondurre quest’indagine a quello che è: la descrizione di un’idea, di un sentimento, di una sensibilità dinnanzi a cose di cui gli intervistati hanno avuto poca o nulla esperienza. È bello ed è utile ascoltare che cosa la gente pensa, a patto che si sia ben consapevoli che quello che uno pensa normalmente cambia – o comunque è messo in discussione – quando lo vive. Uno studio come quello presentato da Eurispes ci dice che, nonostante tutto sembri remare in un’altra direzione, il desiderio di amore – confuso, pasticciato, a volte intrinsecamente disordinato – permane, resiste. E questo non solo perché l’amore è uno degli ingredienti fondamentali che alimentano il business e le attività pubblicitarie, ma perché dell’amore tutti abbiamo bisogno.

Per quanto uno possa avere avuto una strada complessa, una vita difficile o delusioni cocenti, non esiste che si possa fare a meno dell’amore. Il punto è che l’amore che oggi è atteso dal cuore di tanti coincide con una situazione in cui le difficoltà della vita siano definitivamente superate, in cui il lieto fine sia garantito. Se da un lato è giusto parlare di bisogno d’amore, ma anche di “diritto all’amore”, dall’altro è spiazzante constatare che questo diritto tende a essere interpretato come un diritto ad avere una vita risolta, conclusa, efficace.

Stupisce osservare come sia nel matrimonio sia nelle diverse forme di consacrazione, il sacramento o il voto – ma anche il contratto civile che oggi viene stipulato in molteplici forme – non è una scommessa su qualcosa che inizia, bensì l’investimento su una forma cui si chiede di mettere a posto tutto, di realizzare in modo chiaro e lineare il desiderio di felicità che ha affamato la giovinezza. Sposarsi, con una persona o con Dio poco importa, mette il protagonista di questo gesto in una posizione totalmente nuova, in una situazione assolutamente inimmaginabile (indi per cui i corsi di preparazione sono bellissimi, ma si collocano tutti nel periodo ipotetico dell’eventualità, se non dell’irrealtà).

È bello che le persone abbiano un’opinione sulla vita, sul divorzio, sull’aborto, sull’unione civile, ma poi che cosa questo significhi di fronte al dolore che ci si fa dentro una coppia, di fronte alla notizia che qualcosa è sorto in grembo o di fronte al fatto che ci si possa dire due parole in riva al mare o in un parco e considerarsi sposati, questo non è dato saperlo. Perché è facile avere opinione su quello che non c’è, ma la vita ci chiama in quello che c’è.

Fa sorridere leggere l’autoreferenzialità di molte chat, gruppi social o circoli culturali: tutti hanno opinione su una vita che non vivono, su una vita che non è la loro. E tale opinione solitamente discende da principi nobilissimi o da nobilissime dichiarazioni autorevoli. L’Eurispes rileva pure queste opinioni. Le diffonde, le racconta, genera dibattito. Ma questo non risolve nulla. A scuola non permetto mai che si parli di cose che non si vivono. Non perché voglio impedire il formarsi della coscienza critica delle giovani generazioni o perché non voglio trasmettere un assetto culturale significativo, bensì perché alla vita – alla vita reale, quella che ti bussa alla porta e che a volte ti ferisce e ti umilia – non interessa quello che pensi, interessa che tu ci sia. E questa, capite bene, è tutta un’altra statistica.