Frank Underwood vs. Tom Kirkman, proprio come Renzi contro Zingaretti. Un contrasto incolmabile, ormai alle battute finali, una storia che inquieta e sta spingendo di nuovo alla divisione la sinistra italiana.

Per chi non ama le serie tv – o più precisamente, per chi non ne fa un uso eccessivo, come il sottoscritto – bisogna spendere qualche parola in più per spiegare chi sono i due personaggi che ben rappresentano – a mio avviso – lo scontro in atto tra gli ultimi due segretari eletti del Pd.

Sono due presidenti degli Stati Uniti protagonisti di due distinte serie tv – House of Cards e Designated Survivor – che interpretano la politica in modo diametralmente opposto.

La prima serie (Sky Atlantic, 6 stagioni, 2013/2018) ha goduto di uno straordinario successo, almeno fino a quando l’attore protagonista Kevin Spacey non è stato improvvisamente estromesso dal cast per una storia di violenze su minori, venuta fuori sull’onda del #metoo e che al momento appare infondata. È la storia di un politico spietato, assecondato da una moglie spietata almeno quanto lui, che senza badare a regole e al rispetto della legge (commissiona anche un paio di omicidi), elimina tutti coloro che si frappongono all’obiettivo di conquistare la presidenza degli Stati Uniti. Risultato che ottiene grazie ad intrighi e senza passare per il voto popolare. Underwood affronterà le elezioni da presidente, ma anche in quel caso – neanche a dirlo – vince imbrogliando. Alla sua morte gli subentra la moglie, che nel frattempo aveva tramato per conto suo e si era fatta nominare vice-presidente.

La vicenda della coppia Frank e Claire Underwood ha conquistato rapidamente  i cuori delle élite di casa nostra, sempre così propense ad apprezzare l’astuzia e a scambiare la politica con il cinismo senza freni e la dubbia moralità. Per anni non si è fatto altro che commentare – in ogni “salotto buono” degno di questo nome – le avventure borderline della coppia presidenziale, sottolineando in particolare l’efficacia delle tecniche più sofisticate, compreso l’uso manipolato dei Big Data, per spingere l’opinione pubblica a proprio favore. Era il momento in cui appassionarsi ad una serie tv era molto di moda, e la visione di House of Cards era  considerata alla stregua di uno “stage” in comunicazione politica.

Ben altra sorte è toccata all’altra serie tv. In Designated Survivor (Netflix, 3 stagioni 2016/2019) si racconta di uno sconosciuto Segretario alla politica per la casa che, sul punto di essere fatto fuori dal suo secondario incarico governativo, diventa presidente degli Stati Uniti in seguito ad un attentato al Campidoglio nel giorno del Discorso alla nazione dove perdono la vita oltre mille persone, praticamente tutta la classe dirigente del paese. Tocca a lui semplicemente perché poche ore prima era stato nominato “Designated Survivor”, cioè la persona dell’amministrazione che viene tenuta in un bunker segreto proprio nella remota eventualità di un attentato ai vertici dello Stato.

Così Kirkman incomincia a fare il presidente mentre intorno gli autori del complotto cercano di portare a compimento il loro disegno.

Piano piano, aiutato da una famiglia normale che gli crea solo qualche piccolo problema, Tom Kirkman supera gli ostacoli che incontra sul suo cammino, grazie all’aiuto di una piccola squadra di collaboratori fedeli ed un paio di bravi poliziotti. La sua arma vincente è praticamente una sola: dire sempre la verità, rifiutare sempre, anche quando questo è in conflitto con gli interessi della sicurezza, di nascondere una informazione. Nonostante l’evidente inesperienza riesce ad affrontare con calma le crisi più difficili, mettendo sempre al primo posto la tutela delle persone, rispetto ad altri interessi a cominciare da quelli militari ed economici.

Così Kirkman diventa ben presto un presidente amato. Meno amata ovviamente è la serie tv, che a volte scorre noiosa e prevedibile, con dialoghi spesso retorici, e con un sceneggiatura ripetitiva, condizionata dalla determinazione e la dedizione con cui Kirkman svolge il suo mandato.

Paragonando Renzi a Frank Undetwood non voglio dire che egli sia un bugiardo né che si sia macchiato di gravi responsabilità. Sicuramente egli però è percepito come una persona poco trasparente, che ha tramato per ottenere i suoi obiettivi e cambiato troppo spesso e con disinvoltura posizioni. Tutti gli riconoscono l’abilità con cui usa la comunicazione ma anche la strumentalità nella scelta dei tempi e degli argomenti. Diciamo le cose come stanno: il Paese non si fida più di lui e ogni sua azione trova solo il sostegno convinto di uno sparuto nucleo di fan che lo spingono su posizioni sempre più ostili verso il resto del Pd. Ovviamente il giovane ex premier sa benissimo che le cose stanno così, e per questo evita lo scontro diretto e la rottura frontale, per cui sarà molto difficile vederlo nei prossimi mesi alla prova con un suo partito personale, di cui sa bene non esserci le condizioni.

Zingaretti ha conquistato la segreteria sulla base di due obiettivi molto semplici: togliere a Renzi il dominio assoluto sul Pd e riportare unità, ricostruendo un clima di collaborazione tra tutte le altre componenti del partito e anche con quelle che nel frattempo si erano allontanate.

Il nuovo segretario ci è riuscito fino ad oggi – ed in particolare alle europee – tenendo ferma la barra nel rifiutare la polemica fine a se stessa ed evitando tutti le occasioni offerte per riaccendere la rissa interna. Questo non gli ha impedito di mettere mano a qualche situazione difficile, come in Sicilia, dove un congresso illegittimo aveva nominato segretario Davide Faraone, renziano tra i più aggressivi, che ovviamente per protesta si è subito autosospeso dal partito. Faraone ha così seguito le orme di Luca Lotti, protagonista dello scandalo che ha colpito pesantemente l’organo di governo della magistratura e che ha ulteriormente rafforzato l’idea che il “giglio magico” qualche lezioncina da Underwood l’aveva imparata a dovere.

Zingaretti ha ora davanti a se il bivio delle elezioni anticipate. Non tutto dipende da lui, ma sempre di più dipenderà da lui e dalle sue decisioni se Matteo Salvini si convincerà che una crisi dell’attuale governo non ha reali alternative in parlamento, rendendo inevitabile il ricorso delle urne.

Immaginiamo che egli si stia domandando se convenga rischiare le elezioni nella fase di massimo consenso del leader della Lega o se più saggiamente non convenga aspettare le conseguenze – tradotte anche nei sondaggi – delle difficoltà in cui Salvini si dibatte da settimane, senza perdere però consenso.

Il suggerimento a questo punto non può essere che quello di andarsi a vedere l’ultima puntata della prima stagione di Designated Survivor, in cui Tom Kirkman si rivolge alle camere appena rielette e in perfetto stile americano dice: “solo il bene sconfiggerà il male,  e la verità è l’unica strada che conosco per costruire il bene”. Un esplicito invito a rifuggire dalla tattica e a dire esattamente come stanno le cose. Senza temere di dire la verità. Sembra retorica, anzi, sicuramente lo è.

Ma alla fine possiamo convenire che alla politica in questi anni difficili è mancata la verità, e se qualcuno ci convince che davvero sta dicendo solo la verità, stavolta quel qualcuno vince.