La sostenibilità? Non è un algoritmo

La sostenibilità è sempre più importante, anche perché i paradigmi della globalizzazione hanno mostrato i loro limiti

“La sostenibilità non è un algoritmo”, scandisce Mauro Magatti nell’intervento conclusivo della Summer School 2019 del Ceur. Il sociologo della Cattolica proietta l’intensa due giorni al Camplus milanese di Turro verso altri appuntamenti di grande livello politico-culturale: il forum “The Economy of Francesco”, nel marzo 2020, con la partecipazione del Papa; e la 49esima Settimana Sociale dei cattolici italiani – nel 2021 a Taranto – focalizzata sull’enciclica “Laudato Sì”. Ma è stato proprio Francesco – ricorda – a impostare per primo in modo chiaro e completo il dibattito globale su una categoria – la sostenibilità – che non è né tecnica, né economica, ma “umana”, anzi: “antropologica”.



“Nel 2050, secondo alcune previsioni, metà delle terre emerse potrebbero essere inabitabili per il global warming”, ha rammentato Magatti, “ma affrontarlo in termini di sostenibilità non vuol dire predisporre soluzioni tecnologiche a trent’anni: vuol dire invece parlare di come sono in relazione fa loro gli abitanti del pianeta oggi”. E vuol dire elaborare una critica reale e non demagogica di un’era – non ancora conclusa – in cui la sostenibilità è stata ridotta a un postulato mitologico: non esistono limiti alla crescita su ogni terreno (ricerca tecnico-scientifica, Pil, grandezze finanziarie e quindi anche demografia e flussi migratori)”.  



Oggi è invece chiaro a tutti che i paradigmi ideologici della globalizzazione iperliberista hanno prodotto un gigantesco caso di studio di “insostenibilità”. “La razionalità espressa nell’individualismo utilitarista è superata”: non è più possibile immaginare il mondo come una macchina di compensazione di aspettative di consumo del singolo. È indispensabile allargare e approfondire gli strumenti di analisi e governo della realtà.

Quale “teoria e pratica della sostenibilità“? Sono più di tre secoli che l’economista Malthus ha per primo avvertito che “lasciando fare” all’uomo le crisi di sostenibilità sarebbero state certe a scadenza periodica: lo sarebbero state per quantità di risorse a disposizione di ogni uomo e per lo sfruttamento di un pianeta finito nelle sue dimensioni fisiche.  Ma nel XXI secolo – ha raccontato Beppe Folloni al Ceur – i ponderosi modelli della World Bank in sé sono meno attrattivi di un progetto Avsi che la stessa Banca Mondiale ha appoggiato nello stato brasiliano di Salvador de Bahia. Se non c’è “educazione”, se non c’è la “sussidiarietà” generata anzitutto dalla fiducia nelle persone, tutte quelle che assieme partecipano a un’esperienza di riscatto e sviluppo.



Ma la sostenibilità non è destinata a restare in fondo un’utopia. Certo che sì, ha ripetuto al Camplus Enrico Giovannini, già presidente dell’Istat e ministro del Lavoro e oggi presidente dell’ASviS. Rischiamo seriamente di vivere “in un mondo che non vogliamo”. L’agenda 2030 dell’Onu – 17 grandi obiettivi, 169 target operativi, 240 indicatori da monitorare – rappresenta un tentativo avanzato di “pensare l’impensabile”. Ma soprattutto di chiamare ogni uomo – oggi – a pensare alle proprie responsabilità.

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