Tom Peters è un uomo britannico di 32 anni che ha partecipato nelle ultime settimane a diversi programmi televisivi spiegando che vuole essere un cucciolo dalmata. Dice che vorrebbe essere riconosciuto come il primo uomo transpecie, un mix tra uomo e cane. Il caso sembra il tipico prodotto di un momento di crisi dei media: le tv generaliste combattono con qualsiasi mezzo contro l’inesorabile caduta degli ascolti che favorisce gli schermi di smartphone e pc e contenuti più segmentati. Le tv tradizionali cercano di evitare il loro declino con l’industria della nostalgia, lo sfruttamento della paura e le storie improbabili.

In ogni caso, Tom Peters insiste sul fatto che, da anni, al di fuori del suo lavoro, vive come se fosse un cane, mangia anche le prelibatezze per gli animali domestici. Lui assicura che lo fa per sfuggire alla realtà, la trova troppo gravosa. È facile immaginare di rispondere a Tom con un lungo discorso dedicato all’oggettività della sua natura e alla bellezza della condizione umana. Potremmo leggergli il discorso di Pico de la Mirandola sull’eccellenza della specie a cui appartiene. Ma sicuramente non ci ascolterebbe o direbbe che quello che sta facendo è proprio rispondere all’invito del grande umanista: ha scelto, e ha scelto di non essere un uomo. Tutta questa conversazione (non conversazione) sarebbe facile. Più difficile è capire perché Tom vuole essere un cane. Più interessante è comprendere, accompagnare la solitudine, lo smarrimento, l’inquietudine che porta Tom a indossare il suo travestimento da cane.

Il Professore di Etica Miguel Ángel Quintana Paz ha spiegato in un articolo di qualche giorno fa cosa ci succede e perché ci sono casi come quelli di Tom. Quintana non è esattamente un tradizionalista che difende l’indiscutibile evidenza oggettiva della natura umana. Si dedica agli studi di genere. Si è speso per la difesa non dell’ideologia di genere, che afferma non esistere, ma di tutti i valori culturali e le variabili che insieme al sesso determinano la personalità. Quintana sottolinea giustamente che viviamo in un’epoca di iperindividualismo. Potrebbe sembrare che questo termine sia in contraddizione con l’aumento dei nazionalismi e di altri tipi di identità di gruppo. Quintana sostiene che sono due fenomeni confluenti. “Non viviamo in un’epoca in cui sempre più persone si sentono parte di un’identità comune e sono in ansia per la sua dissoluzione? Non siamo davanti a un aumento dei nazionalismi, a una rinascita dei fondamentalismi religiosi, a uno sforzo di tutti per unire ciascuno nel suo insieme (le donne, i gay, i diversi gruppi di immigrati, i neri, i pensionati, ecc.) e dimenticarci che io sono io?”, si chiede il pensatore.

Siamo davanti a “collettivi che l’individuo sceglie: questa è l’ironia dei nostri giorni”. È ciò che sta accadendo “con il fondamentalismo islamico: spesso sono i giovani musulmani che scelgono di unirsi a moschee via via più radicali, obbedendo a imam sempre più integralisti, allontanandosi così dall’Islam più moderato delle loro famiglie (o di quello che loro stessi professavano fino a poco tempo fa). È una decisione strettamente individuale. Anche nei nazionalismi possiamo osservare lo stesso identico fenomeno. Presto, con il transumanesimo, forse potremo scegliere persino la nostra specie o su quale supporto (un corpo di carne e ossa o qualche bit in un supercomputer) preferiamo vivere”.

Il fenomeno non è nuovo, dagli anni ’60 sperimentiamo un boom dell’opzione identitaria. Tra il 1960 e il 1990 il numero di statunitensi che si presentavano come “indiani” o “nativi” americani si è quasi quadruplicato (da mezzo milione a circa due milioni). È aumentato il numero di persone che avevano scelto di vedersi come discendenti di una o dell’altra tribù. Forse questa ricerca di identità più di ogni altra questione è ciò che definisce il momento. Zambrano già 80 anni fa diceva che “quello che la crisi ci insegna, prima di tutto, è che l’uomo è una creatura non fatta una volta, non completata, ma nemmeno incompiuta e con un termine fisso. Né abbiamo finito di farci, né è evidente ciò che dobbiamo fare per completarci”.

E davanti a questa sfida, quale può essere la risposta? Anche Zambrano evidenziava che c’è una domanda che rinasce sempre: “È possibile essere un uomo? E come?”. “L’unico modo per rispondere affermativamente non è dicendo sì in astratto, ma offrendo uno stile di vita, una figura di realtà in cui l’uomo ha un determinato compito e tutta la sua esistenza ha un significato”, diceva la filosofa spagnola. Le risposte “essenzialiste” non funzionano se sono disincarnate. Zambrano parlava del coraggio perché “nei momenti di crisi, la vita viene allo scoperto nella più grande impotenza, fino a farci arrossire. Quello che servirebbe è semplicemente un po ‘di coraggio per guardare lentamente questa nudità (…), vedere come restiamo quando non abbiamo più niente”. Ora che vogliamo essere cani perché “la vita si svuota di significato, il mondo, la realtà, scivola, diventa un fantasma di se stessa”, c’è qualcosa o qualcuno al di sotto o al di sopra del nulla?