Sembrano lontani i tempi in cui le elezioni in Russia erano una pura formalità. Tra la gente cresce la voglia di partecipare, e la rabbia nel vedersi defraudata dei suoi diritti dai giochi del potere. Così, in vista della giornata elettorale dell’8 settembre prossimo la tensione sta salendo drammaticamente: le autorità governative stanno facendo di tutto per “addomesticare” la competizione eliminando ogni possibile candidatura “alternativa” scomoda, e la società reagisce a tali provvedimenti attraverso massicce dimostrazioni di protesta.
Manifestazioni di massa si sono svolte in più città, ma come sempre l’epicentro del fenomeno è Mosca, dove la Commissione elettorale ha deciso di escludere dalle elezioni al Consiglio municipale ben 30 candidati indipendenti, perché le firme raccolte a sostegno (il regolamento elettorale ne richiede 5mila) sarebbero state irregolari. La bocciatura in blocco di tutti i candidati indipendenti ha in pratica fatto piazza pulita dell’opposizione, escludendola dalla possibilità di partecipare all’amministrazione della cosa pubblica nella capitale. La manovra è stata considerata troppo scoperta per non suscitare proteste: sabato 27 luglio a Mosca sono scese in piazza 20mila persone (3500 secondo le stime ufficiali), con 1400 fermi; il 3 agosto cortei e meeting si sono ripetuti, portando a circa 600 fermi di polizia.
Il fenomeno è complesso, comprende certamente una fascia trasversale di oppositori per principio del regime, tuttavia in questo caso ha raccolto consensi anche di moltissimi semplici cittadini – soprattutto giovani, studenti universitari e liceali, ma anche adulti e pensionati – insofferenti a manovre autoritarie che non si preoccupano neppure di mantenere una parvenza esteriore di democrazia e di rispetto delle regole. Ho assistito a uno scambio di messaggi whatsapp tra un’insegnante e i suoi allievi: “Stiamo andando tutti quanti, la nostra classe”; “Portatevi una bottiglietta d’acqua e un panino, casomai vi capitasse di passare la notte al fresco”. Soprattutto tra le giovani generazioni, c’è il sentimento nuovo di essere chiamati in causa a difendere i valori in cui si crede, il gusto di far sentire la propria voce, la decisione di non rassegnarsi alla volontà del “padrone”.
La dura risposta delle autorità ai dimostranti – i pestaggi, i fermi, trasformati addirittura in arresti per alcuni manifestanti, accusati di vari reati – ha suscitato un’ondata di proteste e lettere aperte di giuristi e intellettuali di spicco: “Noi insegniamo ai nostri ragazzi che i diritti umani sono l’anima del costituzionalismo, e la distinzione dei poteri, le elezioni e gli organi rappresentativi sono le sue braccia, che consentono di tradurre in realtà questi valori. È venuto il momento di dimostrare con i fatti la nostra fedeltà agli ideali costituzionali, di intervenire in loro difesa, perché se non lo facciamo ora, i nostri ragazzi non crederanno più a una sola nostra parola. E noi avremo vergogna a pronunciare queste parole”, si legge in una di esse. E ancora, in un’altra: “Hanno cominciato falsificando le elezioni, hanno continuato falsificando i reati di cui molti sono incriminati. Che cosa falsificheranno ora?… Scendendo nelle strade, dimostrando solidarietà ai candidati che non sono stati registrati e ai concittadini sottoposti a violenze, la gente dice: noi siamo contro la menzogna, siamo per la libertà, per l’onestà, per l’osservanza della legge… La propaganda continua a ripetere la stessa tesi: protestando, voi distruggete lo Stato e rischiate di far piombare la situazione nel caos rivoluzionario. No, è esattamente il contrario. Al caos conduce l’illegalità dichiarata: dove non esiste la legge, non esiste neppure lo Stato. Esigendo di osservare la legge, noi ripristiniamo lo Stato. Difendendo gli innocenti, noi ripristiniamo lo Stato. Invitando a seguire la Costituzione, noi ripristiniamo lo Stato”.
Un fatto nuovo, il 27 luglio, anche la decisione della parrocchia dei Santi Cosma e Damiano, proprio di fronte alla sede del Municipio di Mosca, di lasciare le porte aperte (come del resto avviene ogni giorno), per chiunque volesse entrare in chiesa. Il sacerdote ortodosso padre Giovanni Guaita (italiano trapiantato in Russia da oltre vent’anni), ha accolto circa un centinaio di persone che si sono rifugiate all’interno della chiesa per sfuggire alle cariche della polizia, sottolineando nel contempo: “Ci siamo trovati al cuore degli avvenimenti per ragioni che direi puramente geografiche. La chiesa era aperta, come sempre, e noi accogliamo tutti, sempre. Lasciar entrare chiunque è nostro dovere. A questo serve la chiesa. E per questo non abbiamo fatto nulla di speciale… Qualsiasi chiesa ortodossa ogni giorno accoglie chi entra, e non importa se entra dalla porta o salta la cancellata. E noi abbiamo fatto così”.
È la prima volta che la Chiesa prende non una posizione politica, ma si pone pubblicamente come una presenza che ha da dire qualcosa alla società proprio in forza della sua identità cristiana: “Delle persone sono entrate ed io come sacerdote ero tenuto ad accoglierle, era mio dovere – ha detto ancora padre Guaita –. Abbiamo proposto loro di pregare assieme, senza obbligare nessuno. Parecchi ragazzi e ragazze ci sono stati, e abbiamo pregato per la pace. Quando uno viene in chiesa ha il diritto di essere accolto con amore, non gli chiediamo quali sono le sue idee, la sua posizione politica… Molto più tardi, verso sera, proprio come avevamo fatto con i dimostranti abbiamo accolto anche gli agenti di polizia. Erano stati molte ore fermi in piedi nel nostro vicolo, avevano caldo, l’equipaggiamento era pesante… Qualcuno di loro ci ha chiesto di poter bere, rinfrescarsi, andare in bagno. Accogliere i bisognosi, trovarsi là dove gli uomini hanno bisogno d’aiuto, è la cosa più elementare che può fare non solo un sacerdote ma ogni cristiano, ogni uomo”. Un gesto semplice, ma indicativo dell’inarrestabile maturare della società civile, di una posizione umana aperta e responsabile. E questo nel tempo potrà sanare anche la politica.