Il braccio di ferro voto-non voto non è solo una normale battaglia di tattica politica. È l’indizio, non il primo né l’unico, ma plateale fino alla spudoratezza, della crisi della democrazia. Accelerante: le elezioni europee, che hanno rotto le uova nel paniere italico, e non in quello europeo, come noto, per il crollo del populismo pentastellato e il boom del populismo leghista. Si osserva che grosso modo i perdenti non vogliono le urne, i vincenti le vogliono subito. I primi fanno appello alle regole della democrazia parlamentare (anche i grillini grandi propugnatori della democrazia diretta via Rousseau inteso come Casaleggio e associati), i secondi alla volontà sovrana del popolo che come il banco, se vince, prende tutto.
Gratta gratta, non voto è (grosso modo) il partito dell’establishment, il voto è il partito dei barbari.
Mi sembra che il punto critico sia il clamoroso scollamento tra establishment e (gran parte del) sistema politico. Scollamento non nuovo, ma giunto al massimo di nocività per il bene comune.
L’establishment (le parole gentili ritirate fuori da diversi opinionisti dei giornaloni sono élites o classi dirigenti) tende a desiderare un potere politico culturalmente subalterno e praticamente “utile”. Gregario. I barbari concepiscono il potere politico come una investitura plebiscitaria e che consente un potere autoreferenziale. Ininterrottamente, dall’unità d’Italia in poi, chi non trova un compromesso con l’establishment (interno e estero, Usa innanzitutto, ed Europa naturalmente), finisce, prima o poi, male.
Per establishment (italiano) intendo l’assetto di potere economico, mediatico, finanziario e culturale che ingloba le parti politiche risparmiate da Mani pulite: fu fascisti, fu comunisti e fu democristiani filocomunisti.
La filosofia dell’establishment italiano, dopo il fascismo, è sempre stata quella azionista: le élites posseggono il senso e la direzione di marcia, ma non hanno le masse, perché i movimenti popolari seguono il Vaticano o Mosca. Il progetto, sempre ben esplicitato in primis da Eugenio Scalfari, fu a un certo punto, anni 80, di laicizzare la Dc (nell’era De Mita), il Pci (Occhetto, Veltroni); poi di volere il bipolarismo e l’alternanza, perché il potere politico non si consolidasse troppo; poi di combattere Berlusconi perché dotato in proprio di un certo potere (e molto soldo) e non originariamente organico all’establishment: “l’antennista” veniva chiamato in casa Agnelli. L’ultima invenzione è stata l’anti-casta, sul modello di Mani pulite riveduto e corretto, un populismo antipolitico se non creato, promosso in laboratorio.
Eh sì, il populismo, se guardiamo agli ultimi 25 anni, è fondamentalmente un prodotto dell’establishment per ridimensionare le pretese del potere politico, che sarebbe – esso e non con altri – causa dell’ingiustizia e del malessere. Usare il “gemito della creatura oppressa” somministrandogli dosi oppiacee non di religione ma di anti-politica. Ecco l’ultima creatura da laboratorio, M5s, che come tale non ha una reale idealità né cultura politica e non può sussistere se non come funzionalità all’establishment. Grillo dal vaffa al flectar non frangar (mi piego, mi piego, signori, e che s’o scemo a farmi spezzare le gambe?). Il populismo leghista, che ha un più lungo radicamento sociale almeno al Nord, e una spregiudicatezza esagerata, fa un po’ tanto di testa sua e dà gran capocciate agli assedianti.
Ritornare al progetto originario e fermare i barbari. Questo il desiderio dell’establishment. Dico ritornare.
Eugenio Scalfari, per esempio, auspicava prima delle elezioni del 2018 un’alleanza Pd-M5s in cui i primi rappresentassero la classe dirigente e i secondi la massa apprendista. Il 21 luglio di quest’anno, ben prima che la Lega togliesse l’appoggio al governo, Paolo Mieli sul Corriere già definiva Salvini post-europee “perdente” perché non aveva il consenso dei soggetti che contano e “prevedeva” (cioè auspicava) un governo di vasta maggioranza (di chicchessia, base Pd-M5s, al limite si accetterebbe anche il vecchio “antennista”) a guida del valido e illuminato Giuseppe Conte.
Quel tanto di populismo che tamponi il malcontento popolare, siamo sempre lì. Nell’editoriale di Repubblica di ieri, Scalfari distingue tra popolo e popolino. Il popolo sarebbe quello che segue un’élite accettata dall’establishment, popolino la massa pericolosa che segue un candidato duce extra establishment. Qui si vede che concezione del popolo hanno certe “classi dirigenti”. Tuttavia, è qui il punto chiave della crisi della democrazia: a come è ridotto il popolo, e da chi, e da dove si può ripartire per costruire, e che ruolo positivo possono avere in questo anche le “élites”.