Cominciamo con il dire che in Italia ci manca e ci vorrebbe un libro così. Didier Eribon è un sociologo francese, biografo di Michel Foucault; è un intellettuale di sinistra ed è omosessuale. Una decina d’anni fa aveva scritto un libro confessione che da poco è stato tradotto in italiano e di cui sentiremo parlare, perché da questo suo libro è stato ricavato uno spettacolo che aprirà la prossima stagione del Piccolo Teatro di Milano, con la regia di un maestro come Albert Ostermaier e Sonia Bergamasco unica protagonista. Libro e spettacolo hanno l’identico titolo: “Ritorno a Reims”.
Quello di Eribon è uno di quei libri che si potrebbe catalogare come “necessari”: l’autore l’ha tenuto a livello di appunti privati per un po’ di tempo, poi ha capito che doveva scriverlo e renderlo pubblico in modo compiuto, per sé, ma non solo per sé. Ecco in sintesi la vicenda. Eribon è figlio di una famiglia operaia francese; padre e madre lavoravano in fabbrica a Reims: ritmi pesanti, vita molto dura (“mio padre lavorò in fabbrica dai 14 ai 56 anni”). Abitavano in un quartiere ghetto: sociologicamente un moltiplicatore di braccia e di forza lavoro per la grande industria. Dal padre in giù nella famiglia Eribon si respirava una coscienza di classe e si votava per il partito comunista senza “se” e senza “ma”. Senonché nella routine di questa piccola enclave famigliare Didier introdusse due varianti destinate a rivelarsi dirompenti: da una parte la sua volontà di studiare e di avere una formazione catalogata come “borghese”; dall’altra il suo essere omosessuale. Il padre non accettò né una cosa, né l’altra. E così tra lui e Didier si consumò una rottura definitiva.
La necessità di questo libro scattò in Didier Eribon il giorno in cui gli arrivò la notizia della morte del padre, malato di Alzheimer e ricoverato in un centro di cura. Quel giorno si decise che era “necessario” tornare a Reims, per provare a ricucire quel grande buco lasciato aperto nella sua vita (“questo mio antico universo a cui, con tutta l’energia della disperazione, non avevo più voluto appartenere”). Trovò sua madre, che era stata silenziosamente connivente con le sue scelte; con lei ha così iniziato a rimettere insieme un po’ di pezzi, scoprendo tutte le fatiche del padre a capire i cambiamenti, la sua svolta, condivisa da tanti in quel ghetto operaio, dal comunismo al lepenismo. I nemici erano cambiati, non più i padroni e i borghesi, ma gli invasori, i migranti. Tanto che i coniugi Eribon si erano decisi a spostarsi di casa per “fuggire a un’intrusione molto pericolosa”.
In pagine bellissime Eribon cerca di darsi una ragione di questo doloroso naufragio della coscienza di classe. In altre pagine smaschera la miseria di quegli intellettuali progressisti incontrati (e odiati) negli anni di lavoro al settimanale della sinistra chic, Le Nouvel Observateur. Che immensa distanza c’era tra loro e la loro supponenza e quel che stava accadendo nella realtà…
A tutto questo si aggiunge la sua condizione di omosessuale, prima catalogata e ostracizzata come deviante, e ora, al contrario, chiamata a una proclamazione teatrale dei propri desideri, a un’affermazione “‘provocatoria’, ‘proselitistica’, ‘militante’ del proprio diritto d’esistere”. Per questo Eribon ammette il suo debito umano nei confronti di Foucault, intellettuale capace di rivolgersi “alle faglie e alle incrinature che ci abitano, ovvero alla fragilità”.
Ed è proprio un’ammissione di fragilità quella su cui si chiude il libro, quando Eribon confessa una stretta al cuore ripensando a suo padre, “rimpiangendo di non averlo rivisto. Di non avere cercato di capirlo. Di non aver tentato, in passato, di parlargli. Di aver lasciato che la violenza del mondo sociale prevalesse su di me, come aveva prevalso su di lui”. E davanti a tutto questo il libro era solo un tentativo di “porre fine all’esilio”.