Fin dai primi giorni del suo pontificato, papa Francesco ha sempre indicato nelle periferie il punto in cui le cose assumono una prospettiva più genuina e autentica. L’assassinio di padre Paul Offu in Nigeria, per mano di pastori Fulani, è uno di quei fatti che maggiormente illumina le intricate dinamiche del nostro tempo. La Nigeria si trova, infatti, al centro di una transizione epocale: la desertificazione prodotta dal cambiamento climatico spinge i pastori Fulani di religione islamica a migrare alla ricerca di nuove terre dove stanziarsi. Sulla loro strada incontrano i contadini cristiani, che vengono depredati delle loro proprietà e uccisi. Tra costoro, nel 2019, già due sacerdoti impegnati nel supporto a quelle comunità hanno perso la vita.

In questa vicenda si vede chiaramente che l’elemento culturale e religioso non è il detonatore della follia e della violenza, bensì un ultimo alibi per riaffermare il proprio potere sulle cose e sulla storia. I pastori Fulani non cercano cristiani da uccidere, ma cercano terre su cui rivendicare il proprio dominio. Il fatto che queste terre siano abitate da cristiani li legittima nella loro violenza, potendo affermare un diritto di proprietà quasi divino a scapito di infedeli giudicati per l’appunto inferiori.

Credere che sia in atto una guerra culturale tra identità contrapposte è dunque un’illusione ottica: oggi siamo dinnanzi a cambiamenti così violenti dal punto di vista climatico che intere masse di uomini si spostano, si muovono, mettono in crisi i precedenti assetti antropologici e sociali. Le differenze culturali sviluppatesi nei secoli precedenti offrono a questi movimenti giustificazioni sovrannaturali per il perpetuarsi del loro istinto di autoconservazione, piegando la cultura al potere e impegnando – in diverse zone del mondo – ingenti flussi di denaro per supportare tale risvolto.

Finché il fenomeno migratorio sarà trattato come un insieme di flussi da arginare o da gestire la risposta al problema, per quanto efficace, sarà sempre parziale. Il punto è come una civiltà, un’intera civiltà con la propria storia e le proprie tradizioni, sta di fronte al cambiamento in atto, che tipo di risposte offra alla fame di terra e di vita che percuote gran parte dei popoli a ridosso dell’equatore.

I potenti del mondo queste cose le vedono e le hanno già capite, proponendosi di rispondere al problema con un disegno di potere e di egemonia che orienti il tutto a proprio vantaggio. I cristiani non possono avvallare nessuna di queste risposte perché in tutte, qualunque esse siano, la loro religiosità sarà piegata ad un’interpretazione culturale funzionale al potere di turno. Ma qual è l’alternativa al potere? La vita di padre Offu è in questo senso disarmante: è l’amore che fa saltare gli schemi, che permette incontri, che costruisce luoghi di novità e che permette che accada l’impensabile.

La morte di padre Offu ci insegna che ciò di cui abbiamo bisogno non è una prospettiva di potere vincente, bensì luoghi di persone – o momenti di persone – in cui sia possibile sperimentare una risposta positiva ai cambiamenti, del mondo o dell’esistenza che siano. Amare non è l’occupazione su cui concentrarsi nel tempo libero, ma la strada concreta su cui il mondo si ricostruisce. Certo che l’amore non è mai l’esito di uno sforzo, ma l’eco di un’ultima esultanza del cuore che, finalmente, ha trovato una casa che non sente più minacciata da nessuno.